La proposta del direttore Dante Freddi
L’appello unitario delle organizzazioni imprenditoriali di Orvieto alle istituzioni quale significato assume?
“Cna, Confindustria, Confartigianato, Coldiretti, Confagricoltura, Cia, Confesercenti e Confcommercio lanciano un appello alle istituzioni: un patto per lo sviluppo.
Di seguito il documento
…Occorre subito lavorare ad un nuovo progetto, ambizioso e condiviso, iniziare tutti a pianificare le azioni per superare la situazione di stallo in cui versa l’economia locale…È corretto dare l’idea che per il Contratto di Fiume e per la progettualità richiesta dalle “Aree Interne” ci sia qualcuno che abbia il monopolio culturale e filosofico delle vie dello sviluppo locale? Queste opportunità, potranno diventare strumenti di sviluppo concreto solo nella misura in cui la componente imprenditoriale avrà lo spazio per poter portare avanti le proprie istanze, senza veti e preclusioni ideologiche…Quanto sta accadendo nel settore delle energie rinnovabili ne è un esempio lampante. Per la geotermia e per gli altri settori emerge una miopia incredibile che non valuta attentamente le cose e ancor più grave blocca gli investimenti…Stiamo assistendo infatti alla sterilizzazione delle legittime rappresentanze democratiche a vantaggio di singoli comitati di pressione ora su questo, ora su quell’altro tema. Le Organizzazioni di Categoria chiedono pertanto alle Istituzioni (Regione e Comuni innanzitutto) l’apertura di una discussione sulla direzione da prendere rispetto a temi fondamentali quali lo sviluppo ed il lavoro.” (Comunicato delle organizzazioni imprenditoriali orvietane, http://orvietosi.it/2015/10)
L’opinione di Pier Luigi Leoni
Così le organizzazioni imprenditoriali orvietane si sono svegliate e solennemente pongono questioni di metodo democratico. Dovrebbero essere le istituzioni a promuovere il confronto, in tema di sviluppo, con le organizzazioni esponenziali delle categorie produttive. Altrimenti i cosiddetti comitati di pressione continuano a scorrazzare ponendo veti e avanzando proposte che non sono di loro competenza. È vero che le associazioni che rappresentano interessi diffusi, i comitati “anti qui” o “pro qua”, sono più vivaci delle istituzioni, dei sindacati e della associazioni imprenditoriali, ma la loro vivacità – del tutto legittima – è favorita, anzi imposta, dalla pigrizia degli altri interlocutori. Questa vivacità ha stanato, come si riferisce nell’articolo proposto dal Direttore, le rappresentanze delle categorie imprenditoriali, che però si limitano a porre questioni di metodo laddove già esistono idee chiaramente abbozzate dal libero associazionismo. L’umile cittadino vorrebbe sapere non quali sono gli astratti doveri delle istituzioni e delle organizzazioni imprenditoriali e sindacali, che conosce benissimo, ma che cosa di positivo si agita nei cervelli degli esseri umani che hanno voce in capitolo in quegli ambiti piuttosto reticenti.
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
Debbo dire con tutta franchezza che questa uscita delle organizzazioni imprenditoriali mi ha abbastanza sorpreso. Non certo perché sia inopportuna o contenga delle negatività, anzi al contrario, come dirò tra poco, ma perché appunto non me l’aspettavo. Le ragioni di questo mio spiazzamento sono più d’una. Ne faccio ora rapidamente cenno.
La prima è che una lunga storia di disinteresse diffuso per la politica e di delega di fatto ai partiti anche degli interessi di categoria ha favorito la frammentazione e per converso ha reso difficile la ricerca di unità su obiettivi comuni. Dentro questa situazione ci sono stati un po’ tutti, affidandosi per ottenere risultati più alle tendenze del momento e al dinamismo e al coraggio dei singoli che non alla ricerca di vie analiticamente e progettualmente condivise dello sviluppo. Perciò che ad un certo punto maturasse la decisione di mettere i piedi nel piatto non era scontato.
La seconda è che sulle questioni citate nell’appello le cose sono andate talmente avanti che sembrava ormai dovesse durare fino all’ultimo la calma piatta a cui siamo stati abituati da tempo. Insomma, sembrava che a nessuno importasse qualcosa della piega che hanno preso le questioni energetiche nel nostro territorio nonostante la denuncia pure fatta da qualcuno. Né che ci si preoccupasse più di tanto del modo in cui si è sviluppata o non sviluppata l’iniziativa su questioni essenziali come i progetti per la “Strategia per l’Area interna dell’Orvietano” o su quelli per la messa in sicurezza e la valorizzazione del bacino del Paglia, per non parlare poi dell’ex Piave, dell’ex Ospedale e in generale del patrimonio pubblico, questione tutt’altro che secondaria per uno sviluppo fondato sulle risorse materiali e umane del territorio orvietano. Appunto, a proposito di visione progettuale contrapposta a pressioni particolaristiche. Anche per questo l’uscita degli imprenditori non era scontata.
La terza ragione della sorpresa è la più importante. Nell’appello è scritto: “Gli interventi hanno evidenziato l’assenza di un progetto capace di rilanciare il tessuto socio-economico del Territorio, senza il quale si rischia di disperdere le energie inseguendo mille rivoli senza una chiara identificazione dei settori strategici e dei driver di sviluppo”. E come si fa allora a non essere sorpresi? È la prima volta da molto tempo a questa parte che capita di vedere soggetti sociali che pongono il problema di una visione progettuale dello sviluppo.
Parlo dunque soprattutto di sorpresa positiva. Certo, ci si può chiedere perché per tanto tempo si è stati indifferenti di fronte alla liquidazione di quella logica progettuale di cui oggi si evidenzia la mancanza, perché si è ignorata la lunga battaglia solitaria che qualcuno ha condotto per fermare la deriva verso la cultura della sopravvivenza contrapposta a quella della progettualità di governo, e in sostanza perché si è lasciata deteriorare così a lungo la situazione senza sostanziale iniziativa. Ma questo è ormai meno importante del significato che l’iniziativa delle organizzazioni imprenditoriali assume oggi oggettivamente.
Quale è questo significato? Innanzitutto che si è individuato il punto critico che ostacola la progettazione del futuro e si sono cercate e trovate le coordinate dell’unità per reimpostarlo. E in secondo luogo che si è posto con forza in modo esplicito proprio quel problema di una visione generale e progettuale dello sviluppo che dopo gli anni ottanta del secolo scorso è stata progressivamente abbandonata con tutte le conseguenze che sappiamo. Ne consegue ovviamente sia un contrasto netto con le iniziative particolaristiche che tendono ad affermare visioni e interessi di parte o comunque di cerchie ristrette, sia un invito alle istituzioni a usare la forza della democrazia per mettere a leva le potenzialità del mondo imprenditoriale. C’è da augurarsi che anche dal mondo sindacale venga avanti con forza questa invocazione di una cultura progettuale dello sviluppo che nei decenni scorsi non è stata semplicemente abbandonata ma combattuta proprio dal mondo politico di loro riferimento.
Lungi dall’essere preoccupante, una simile posizione è da ritenersi un’importante risorsa. Giunge tardi? Per alcuni aspetti sì, ma non è fuori tempo, tanto meno è fuori luogo. In realtà, la disastrosa esperienza di vent’anni e passa di populismo, con l’aggiunta delle conseguenze di una crisi strutturale dello sviluppo facile, ha messo a nudo sia l’inconsistenza della politica che fa e dice tutto e il contrario di tutto, sia il costo di un nuovismo superficiale e arrivista, sia la pericolosità di un potere gattopardesco diffusosi a macchia d’olio in men che non si dica dai livelli centrali a quelli periferici. Anche dalle nostre parti ormai ce se ne rende conto? Il segnale c’è. Speriamo che non resti tale.
Le Associazione del terzo settore si sono messe insieme per partecipare all’ideazione dello sviluppo prendendo occasione prima dalla questione del Paglia e oggi dalla “Strategia Aree interne”. Lo fanno con un ventaglio di idee che tutte insieme indicano una strategia, con obiettivi, contenuti e metodi. Le Organizzazioni di Categoria per loro verso si sono finalmente messe insieme per essere soggetti protagonisti di una politica territoriale dello sviluppo. Mi pare che da tutto ciò potrebbe venir fuori qualcosa di buono. Tutto sta a fare in modo che la politica (intesa come universo dei soggetti che contribuiscono al governo della cosa pubblica) trovi le coordinate capaci di canalizzare questo positivo movimento di forze verso obiettivi utili a tutti.
La proposta di Leoni a Barbabella
Maria Elena Boschi bella e brava
“Al di là del giudizio di merito sulla bontà o meno delle riforme di cui la Boschi è stata, protagonista (Legge elettorale, Senato, scuola), c’è una cosa che bisogna riconoscere all’avvocato societario di 34 anni che Matteo Renzi arruolò fin dai tempi della prima Leopolda intuendone le potenzialità: il metodo. E la capacità di trasformare le critiche in forza di volontà.
Più ne riceve, più Maria Elena diventa inarrestabile e vincente. L’accordo costruito in Parlamento sull’Italicum è quasi tutto farina del suo sacco. Infatti chi ancora non riesce ad accettare che anche le donne amino il potere e sappiano anche come esercitarlo, ha pensato bene di denigrare la sua immagine con battutine maliziose sui baci e gli abbracci ricevuti in Aula dopo il voto finale.
Qualche giorno prima era stata presa di mira la sua casacca azzurra, “un pigiama” secondo alcuni, poi le mollettine in testa da scolara di terza elementare. Contro di lei, che a tutti ha sempre sorriso e con nessuno ha mai alzato la voce, si sono letti e ascoltati commenti sprezzanti, livorosi, talvolta irripetibili. Alla preghiera di essere giudicata “per le riforme e non per le forme”, Matteo Salvini le ha dato della “ministro sculettante” e Renato Brunetta della “principessa sul pisello”.
Non che i “compagni” e soprattutto “le compagne” di sinistra si siano sprecati nel difenderla. Nemmeno dalle parti delle professioniste dell’indignazione alla “Se non ora quando” si sono levate vibranti grida di protesta per gli attacchi di stampo sessista. Tutti zitti anche quando la Boschi è stata accusata “di essere riuscita dove il berlusconismo ha fallito, ossia nel dare credibilità istituzionale alla mera apparenza”.
È stata definita la “velina di Renzi”, come se l’essere avvenente sia una colpa o possa diminuire la sua bravura. Un pregiudizio che molte lavoratrici scontano e che dimostra come in Italia non solo esiste l’invidia sociale ma anche quella estetica. C’è infatti chi è convinto che siano solo leggende metropolitane messe in giro ad arte dai fedelissimi del giglio magico che oltre che “bella” il ministro Boschi sia anche “una che studia per davvero”, che sappia rispondere ai question time senza portarsi dietro foglietti vergati da altri, che conosca approfonditamente le materie che le competono e non lasci nulla all’improvvisazione.” [Claudia Daconto su Panorama]
Bell’articolo, dedicato ad una bella donna che è pure brava. Beh, meno male che c’è la Boschi, allora! Che si può desiderare di più in quest’Italia tutta contraddizioni, tra annunci di splendido sole e presenza di nuvole minacciose, tra speranze di radioso avvenire e realtà di inondazioni, frane e ruberie?
Non negherò certo l’importanza di conoscere le caratteristiche di chi ci governa. Né sottovaluto il ruolo delle giornaliste (non è giornalisti in dialetto orvietano) nello smascherare i pregiudizi non solo maschilisti sulle colleghe donne in carriera, che si pretenderebbe che se sono belle non possono essere anche intelligenti e preparate. Per cui, se la Boschi è anche intelligente e preparata, un brivido di piacere me lo prendo volentieri.
Ma tutto qui? Confesso che, finita l’adesione al peana, non posso fare a meno di pensare anche a qualche altra cosa. Mi ci spinge l’abitudine mattutina di ascoltare la rassegna stampa di Alessandro Milan su Radio24, che si conclude sempre con la rubrichetta “la carta costa” dedicata all’articolo più inutile della giornata. Ecco, questo di Claudia Daconto potrebbe finire lì senza scandalo, se non ci spingesse ad andare oltre.
Il fatto è che non si possono scindere le eventuali competenze e abilità delle persone da ciò che realmente fanno. Soprattutto se si tratta di chi ci governa, donna o uomo che sia. Conta solo il risultato che un ministro porta a casa o per un cittadino che ragiona conta anche che cos’è e che conseguenze ha per lui quel risultato? L’Italicum è una buona legge o no? Cambia le cose in direzione di una democrazia più forte che garantisce di più il cittadino o restringe gli spazi di democrazia talché il cittadino conta meno di prima, che già era poco che niente? La Boschi porterà a casa a suo nome anche la riforma istituzionale? Brava, ma poi bisognerà domandarsi se si tratta di una buona riforma o di un gran pasticcio più frutto di un intricatissimo gioco di compromessi multipli che non un disegno lungimirante di modernizzazione dello stato.
Insomma, la Boschi bella e brava ci riempie di ammirazione e stiamo tutti lì a godere senza sforzo della sua avvenenza e del suo viso in stato di perenne solarità. Ma alla fine per noi credo che dovrebbe contare quello che fa e come lo fa. Sennò va a finire che a forza di gare a chi mette in campo le donne più avvenenti continuiamo a farci prendere per i fondelli essendo contenti e bastonati. Sono ormai ben più di vent’anni, e dovrebbe bastare.