di Gianluca Foresi
Quando s’insedia la giunta tanto cara,
Colui che l’ha sorretta già si pente,
bestemmiando le volte, e tristo impara
ch’altra pur non servirebbe niente;
qual venne prima, e quale dopo prende,
e qual di mezzo, era indifferente;
ma non s’arresta, e questo e quello spende,
a chi porge la man, più una promessa;
e così dal cadere si difende.
Tal era lei in quella urbe fessa,
pietendo a tutti, a quei usi a la caccia,
a chi pregando si recava a messa.
Qui v’era martin che da bracaccia
fiera un tal dì fu estratta a sorte:
scaltro la legò, mettendo in Taccia
chi ben sperava con le mani sporte
che non fosse balzello com’accisa
da far parer lo buon Bocciucco forte.
Vidi un bartender e l’anima divisa
dal corpo suo per conti e per parcheggia
com’e’ dicea, non per colpa commisa;
tien la capoccia vedo; ed indietreggia
mentr’è di qua lo gnagna dilagante,
sì che però non sia di miglior greggia.
Come libero fui io là davante
quell’ombre a cui paghiamo impieghi
un poco di moneta assai sonante,
io cominciai: “Eni par che tu mi spieghi,
o luce mia, espresso in alcun testo
che decreto del cielo elezion pieghi;
e tanta gente chiede pur di questo
sarebbe dunque loro speme vana,
o non m’è ‘l detto tuo ben manifesto?”
Ed Eni a me: “Mi’ consiliatura è piana;
e la speranza di cambiarla falla,
se così pensa gente urbevetana;
ché pure con cimiccio stava calla
perché molti lavor trovar appunto
qui, onde vivacchiare e stare a galla;
e là ove firmai programma in punto,
non si cambiava, per fregar, diletto
perché il friego da io era disgiunto.
Veramente mio caro piccoletto,
non ti crucciar, se quella nol ti dice,
che fiume mio è uscito dallo letto.
Non so se ‘ntendi: io dico de la croce;
tu la vedrai di sopra, in su la vetta
di questo tufo, ridere e felice”.
E io: “Giuseppe, e questa qui è perfetta,
che già ‘l sorriso pare mi si spanzi,
per questa minchiata tanto benedetta”.
“Noi di minchiate qui n’abbiam d’avanzi”,
rispuose, “quanto più vorremo omai;
e di fatto ci potremmo fare i pranzi.
Più che laggiù tu nel dirle potrai,
sappi che già abbiamo faccia tosta,
quindi le palle tu romper non puoi.
Ma vedi là un’anima che, posta
sola soletta, inverso noi riguarda:
quella ne spiegherà ogni risposta.”
Venimmo a lei: o anima vegliarda,
come vagavi l’Umbria inoperosa
e nel mover li giochi mesta e tarda!
Ella non ci dicea alcuna cosa,
ma lasciavane gir, solo guardando
a guisa di fagian quando si posa.
Pur Beicapei si trasse a lei, pregando
che ne mostrasse almeno la saliva;
e quella non rispuose al suo dimando,
ma di tante spese e anche dell’iva
ci ‘nchiese; ed Enilucegas borbottava
“Catiusc…” e l’ombra, tutta in se addormiva,
resurse dal sonno ove sempre stava,
dicendo: “O bamboccion, fui Galanello
de la regione!” e poi bestemmiava.
Ahi stolta Orvieto, pensi al fegatello
quaje, porchetta, a Paja sempre festa,
lottizzazione di famiglie e del Fanello!
Al suon de le parol scossi la testa
e poi pensava a questa bella terra
denominata triste Area vasta:
e ora in te non stanno sanza guerra
i piddini tuoi, e l’un l’altro si rode,
di quei che come mulo tutto serra.
Cerca libera intanto uova sode
di tue galline, e poi tirale in pieno
ad ogni parte, che pace non gode.
Che mal ti fè colei che perse in pieno
orvietano, or la stella è vuota?
Sanz’essa or nel dubbio mi dimeno!
Ahi destra non pensar esser devota
che lasciar seder Concina in la sella,
fu meglio intendi, questo Dio lo nota,
guarda come esta rupe è fatta fella
per non essere sorretta dai neuroni
di chi tiene la penna e la cartella.
O reperto germano ch’abbandoni
Rupe a la schiatta stolida e selvaggia,
non far arrivare al colmo li maroni,
giusto giudicio da la testa caggia
sovra ‘l tuo corpo, e sia novo e certo
tal che ‘l tuo successor temenza n’aggia!
Ch’avete tu e ‘l faraon sofferto,
a desider di podestà diretti,
che ‘l giardino de lo imperio sia diserto.
Vieni a veder Fringuelli e altri reietti
Custodi e Filippetti, uom sanza cura,
color già visti, ma altri con Scopetti!
Vieni, crudel, vieni e vedi la stortura
di chi in giunta capoccia de capagne
han cogitato ’ExperienceEtruria!
Vieni a veder la tua Rupe che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
“Germano mio, su move le calcagne!”
Vieni a vedere ‘l Paja come allama!
Se tracima quanno poco piove,
e va a bagnar la gente che reclama.
E se ‘l debito è finito indove
ce sta un mutuo manco a tasso fisso,
che famo ride Baschi e pure Giove!
O la tua azion finita è ne l’abisso,
che tuo Consiglio non riesce bene
a far le cose che c’avea promisso?
Chè le città d’Italia tutte piene
son d’avvocati e un Morcel diventa
pepe satan che magheggiando viene.
Orvieto mia, ben puoi star scontenta,
di questa ammonizion che or ti tocca,
che vien dal popol tuo che si lamenta.
Ognuno ha furbizia in cuore, e scrocca
voti, per stare in consiglio et parco,
ma il popol tuo perché serra la bocca?
Molti fiutano lo Comunal incarco;
ma il popol tuo ché non risponde,
sta silente e non pon mano all’arco?
Non starti lieta, che non hai ben donde,
eri ricca, capace, piena di senno!
Ora non vedo, l’effetto si nasconde.
Gli etruschi Lucumoni che fanno
l’antiche leggi e furono sì civili
fecero al viver bene un piccolo cenno
Ora i figli tuoi fan tanto sottili
provvedimenti, ch’a mezzo novembre
a ottobre par che nessun già li fili.
Quante fiate, a vendemmia di settembre,
chi elegge a maggio consiglieri in piume,
vede che già hanno mutato membre!
Perso han costoro ogni pio lume.
Quale bandiera lieve giammai ferma
riportano a tutt’altro lor barlume
lasciando la città malata e inferma.