La proposta del direttore Dante Freddi
La “Strategia per le Aree Interne” può mettere in moto le energie del nostro territorio. Ci riusciremo?
“Per la costruzione di una strategia di sviluppo economico per le Aree interne questo rapporto parte dal “capitale territoriale” inutilizzato presente in questi territori: il capitale naturale, culturale e cognitivo, l’energia sociale della popolazione locale e dei potenziali residenti, i sistemi produttivi (agricoli, turistici, manifatturieri). Il capitale territoriale delle Aree interne è oggi largamente inutilizzato come esito del processo di de-antropizzazione richiamato in precedenza. In una strategia di sviluppo locale il capitale non utilizzato deve essere considerato come una misura del potenziale di sviluppo. Le presenze di soggetti innovativi che pure esistono nelle Aree interne come i presidii manifatturieri avanzati possono rappresentarne l’innesco. Le politiche di sviluppo locale sono, in primo luogo, politiche di attivazione del capitale latente.” (Documento tecnico collegato alla bozza di Accordo di Partenariato trasmessa alla CE il 9 dicembre 2013, pg. 9).
Di seguito il documento integrale.
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
La “Strategia nazionale per le Aree Interne” a mio avviso rappresenta un approccio fortemente innovativo al tema dello sviluppo delle aree marginali o marginalizzate del nostro Paese mediante un intelligente ed efficace utilizzo dei diversi canali europei di finanziamento. Chi volesse rendersene conto può leggere il documento da cui il Direttore Freddi ha tratto il brano che ci chiede di commentare.
Di esso credo opportuno sottolineare almeno gli aspetti che spiegano il mio giudizio generale e che possono rendere più comprensibile ciò che dirò tra poco. Eccoli: chiarezza sia delle motivazioni strategiche che dei criteri di individuazione delle aree; analisi convincente sia dei punti di debolezza che delle risorse territoriali trasformabili in opportunità; non finanziamenti a pioggia, ma uso mirato dei fondi comunitari integrati da quelli statali; coinvolgimento diretto e responsabile delle istituzioni locali e regionali; attivazione di partecipazioni pubbliche non formali e sollecitazione dell’iniziativa dei privati; superamento dei particolarismi e dell’emarginazione delle intelligenze presenti nel territorio; contestuale affermazione di visioni lungimiranti dello sviluppo mediante progetti che valorizzino il “capitale territoriale” scarsamente utilizzato o non utilizzato affatto.
Basti pensare che le amministrazioni locali, in collaborazione strutturata tra loro, possono riprogrammare il sistema scolastico, quello sanitario e la viabilità. E basti pensare all’ampiezza degli ambiti in cui si può sviluppare la progettualità di un solido sviluppo: tutela del territorio, valorizzazione delle risorse naturali e culturali e turismo sostenibile, sistemi agro-alimentari e sviluppo locale, risparmio energetico e filiere locali di energia rinnovabile, saper fare e artigianato.
Tutto ciò è ben riassunto dal concetto di “capitale territoriale”, che evidentemente include anche quelli di “capitale umano” e di “capitale sociale”, concetti con cui chi come me si occupa di educazione e di formazione ha normale frequentazione. Concetti però da manovrare con rispetto e competenza, altrimenti i danni sono assolutamente certi. Ecco perché la “Strategia per le Aree Interne” va presa molto sul serio e assunta nella sua completezza, soprattutto curando la coerenza tra gli obiettivi, gli strumenti, le procedure e il controllo degli esiti.
Ciò che senza l’elemento che il documento ministeriale individua come fondante ovviamente non esisterà. Si tratta di quella cosa immateriale che con termine inglese si chiama vision e che semplicemente è l’idea che si ha di qualcosa in termini insieme di natura, identità, potenzialità e ruolo strategico. Il documento afferma la necessità che si abbia una ‘vision territoriale’, senza di che non si farà ciò per cui l’operazione è nata, e che è sì territoriale (dei singoli territori), ma è anche essenzialmente nazionale in quanto sommatoria coerente delle operazioni territoriali garantita da omogeneità di obiettivi, procedure e controllo degli esiti, ivi inclusa una moderna tipologia di cultura amministrativa (da sviluppare rapidamente laddove per caso non ci fosse ancora).
Dunque siamo di fronte ad una grande occasione, non più del tipo tradizionale di un uso strumentale dei progetti per catturare risorse senza responsabilità degli esiti, ma di elaborazione di progetti secondo una visione strategica per risolvere problemi strutturali e creare futuro. In fondo c’è una somiglianza molto forte con la logica e le operazioni concrete del Progetto Orvieto degli anni ’80. Somiglianza però, non identità. Infatti, allora i finanziamenti furono “inventati”, nel senso che la strategia progettuale che si tradusse in rilevanti finanziamenti consistette nella definizione del modo di superare l’emergenza delle frane non solo con il risanamento ma anche con la valorizzazione dei beni naturali e storico-artistici intesi come un unicum inscindibile.
Ne derivò un interessamento attivo delle istituzioni europee, una legislazione speciale molto sofferta ma anche rispondente alla capacità propositiva delle amministrazioni coordinate tra loro e con il sostegno di un vasto mondo intellettuale. La città fu trasformata: il masso messo in sicurezza, gran parte del patrimonio storico risanata, le reti e le pavimentazioni rinnovate, il sistema di mobilità e sosta completamente modernizzato. Il tutto all’interno di una politica generale di rilancio della città e del territorio nel contesto nazionale e internazionale.
Oggi non si tratta di ‘inventarsi’ progetti a livello locale per trovare i finanziamenti nazionali, perché i finanziamenti sono già stabiliti da un provvedimento nazionale. Dunque si parte da condizioni iniziali invertite: nell’un caso (il Progetto Orvieto) il progetto attivava i finanziamenti, nell’altro (questo, le Aree Interne) sono i finanziamenti ad attivare il progetto. Si tratta però, come per il Progetto Orvieto, di utilizzarli con lo stesso metodo, cioè per fare cose che restano in quanto rappresentano strumenti e modalità di sviluppo con fondamento nelle vere risorse del territorio. E dunque, come allora, con una vision, cioè con una capacità di dare senso complessivo alle scelte e di individuare i settori strategici dello sviluppo, che collegati tra loro possono rafforzarsi a vicenda.
Attenzione però, se questo è il metro di misura della possibile efficacia delle scelte, bisogna dire con onesta chiarezza che si è in terribile riardo, perché, mentre l’operazione è partita circa un anno e mezzo fa, a nemmeno un mese dalla scadenza ufficiale (ma è realistico aspettarsi che vi sarà una dilazione almeno di un mese) ancora non si sa quali sono le scelte fondamentali e tanto meno i progetti possibili. E la fretta è sempre cattiva consigliera.
Tuttavia non bisogna certo arrendersi. Si dovrà comunque fare ogni sforzo perché l’operazione sia del livello richiesto, anche in queste problematiche condizioni. Mi si permetta dunque almeno di dire che le amministrazioni sono oggettivamente responsabili di ciò che accadrà. Perciò voglio sperare che si impegnino sul serio perché emerga il meglio del territorio e non accada che anche questa volta le migliori prospettive di ordine generale vengano soffocate dalla corsa al particolare.
L’opinione di Pier Luigi Leoni
La strategia delle aree interne è un modo di redistribuire la ricchezza per tenere in equilibrio e quindi rafforzare la vita sociale ed economica. Si tratta di una funzione propria dello Stato moderno e quindi anche dell’Unione Europea, per mezzo della quale un gruppo di Stati esercitano parte delle loro funzioni. In Italia i tre quinti del territorio su cui vive un quarto della popolazione sono ufficialmente ascritti alla categoria delle aree interne, un modo nuovo e più delicato per definire quelle aree svantaggiate e depresse dove la popolazione cala e si spera di trattenerla migliorando i servizi essenziali e stimolando l’uso delle risorse culturali, ambientali e anche manifatturiere esistenti. La Regione dell’Umbria ha individuato tre aree interne sulle quali pioveranno vari milioni di euro pubblici che i comuni dovranno gestire, a cominciare dalla fase progettuale. Un’area comprende Gubbio e i territori circostanti, un’altra la Valnerina e un’altra i 13 comuni del comprensorio Orvietano con l’aggiunta di Città della Pieve a Nord e di Alviano, Attigliano, Giove Guardea, Lugnano in Teverina e Penna in Teverina a Sud. Salta agli occhi la differenza tra la Valnerina, dove l’aria è buona, ma nemmeno Santa Rita è riuscita a rarefare i terremoti e a trattenere la popolazione, e l’Orvietano dove le opportunità naturali, culturali e infrastrutturali sono enormi e male adoperate. Ma è inutile sottilizzare. Il suono del denaro pubblico, come quello degli ottoni, dovrebbe scatenare l’adrenalina nei pubblici amministratori, scaldare i loro cervelli e indurli a stare svegli e a partorire idee. Invece si registra un ritardo nell’approntare i progetti di larga massima e già si prospetta uno spostamento al 31 ottobre del termine del 30 settembre per la loro presentazione. Più che suscitare entusiasmo, il potente suono del denaro sembra aver stordito sindaci, assessori e consiglieri comunali. Invece la strategia delle aree interne punta sulla capacità delle amministrazioni comunali di collaborare strettamente e di individuare le necessità e le potenzialità dei loro territori. Forse i tempi assegnati sono troppo stretti e non si è tenuto conto che, almeno nelle cosiddette aree interne dell’Umbria, la cultura della collaborazione intercomunale non è matura. In ogni modo questa sembra l’ultima occasione, in questo secolo, per riflettere sulla cause della stagnazione economica e demografica dell’Orvietano, nonostante le piogge di investimenti pubblici del Novecento, e trarne le conseguenze. Ci salverà l’archeologia, ci salverà l’amenità del territorio? Ci salverà Città della Pieve, dove la vivace Toscana sconfina nella meno scaltra Umbria?
La proposta di Barbabella a Leoni
È giusto vietare il velo per le insegnanti nelle scuole pubbliche?
“Recentemente la Corte costituzionale tedesca ha dichiarato incostituzionale il divieto di portare il velo per le insegnanti nelle scuole pubbliche, un divieto che era stato introdotto da alcuni Länder della Germania. Devo dire che questa sentenza della Corte mi ha indignato: significa che insegnanti nelle nostre scuole pubbliche, che dovrebbero essere laiche, possono indossare quello che molti esperti considerano un vero e proprio simbolo di oppressione delle donne nella cultura islamica. Le conseguenze di questa sentenza rischiano di essere drammatiche. Pensiamo a delle bambine di 10-11 anni, ragazzine nel pieno della pubertà che magari in casa loro conducono una battaglia quotidiana per non portare il velo: bene, queste ragazzine verranno di sicuro iscritte nelle scuole con insegnanti «velate», così che anche la scuola contribuirà a rafforzare la pressione psicologica su queste ragazze. Inaccettabile. La nostra scuola pubblica non si può fare promotrice di una simile immagine della donna.” (Peter Schneider, dal blog di Cinzia Sciuto, agosto 2015)
Il mondo islamico è culturalmente molto variegato e la prescrizione del velo femminile riflette questa varietà. Si tratta di conciliare il rispetto per la religiosità islamica col nostro modo di vivere. Non vedo alcun valido motivo per boicottare il velo islamico quando esso non nasconda il volto in modo da renderlo irriconoscibile. Del resto accettiamo tranquillamente l’abbigliamento femminile che cela le forme del corpo e l’abbigliamento maschile che evidenzia l’appartenenza culturale. L’affermazione che il velo simboleggia la sottomissione della donna mi sembra capziosa, perché la stessa parola islam significa sottomissione. La proibizione del velo alle donne islamiche cambia qualcosa? Serve solo a umiliare e a irritare gli islamici. Piuttosto, se vogliamo essere fedeli alla nostra laicità, cominciamo col dare il buon esempio rispettando le culture, compresa la nostra. Quindi difendiamo il Crocifisso nelle scuole, quando i genitori degli alunni in maggioranza lo desiderano, difendiamo il nostro diritto di portare al collo la Croce o l’immagine di Gesù e della Vergine quando e dove ci pare e piace. E, se non ci piace come si comportano gl’islamici dove comandano, non andiamo a trovarli.