La proposta del direttore Dante Freddi
La dipendenza da Facebook si può evitare
“Ho disattivato il mio account Facebook da oltre un mese. Lo avevo aperto nel 2008 e dopo aver festeggiato sette compleanni insieme agli “auguriiii :-)” dei miei oltre 900 amici, visto nascere i loro figli, morire i loro gatti, crescere i loro amori, condiviso gioie e dolori di persone incontrate una sola volta nella vita, alla fine ho scelto di smettere di guardare le foto delle loro vacanze e dei loro panini.
L’ho fatto perché di Facebook ero diventata dipendente. Non solo non ero riuscita a dosare la mia presenza social, ma soprattutto non avevo dominato la compulsione di guardare perennemente lo schermo del telefonino muovendo in alto l’indice. Dalla mattina – ancora nel letto – alla colazione, passando per il bagno (si salva la doccia perché lo smartphone non è impermeabile). Poi in macchina – al semaforo nessuno suona più quando scatta il rosso, come te stanno tutti chattando su Facebook – al lavoro, dopo il lavoro, durante l’aperitivo mentre l’amico parla e tu lo ascolti ma non lo guardi perché gli occhi sono incollati sulla pagina biancoblu, a cena, dopocena, al cinema, al concerto, a letto. Addormentarsi su Facebook. Come se fosse normale.
Non riguarda tanto sapere cosa stanno facendo gli altri o cosa sta succedendo nel mondo, quanto riempire i tempi morti della giornata – e non solo quelli – con un’azione artificiale. In attesa dal parrucchiere, in coda al supermercato, a una cena, in spiaggia: tirare fuori lo smartphone, piazzarsi sull’homepage del social preferito e restare lì mentre intorno la vita reale si muove. Come i bambini davanti ai cartoni animati e i padri che guardano il Tour de France nei pomeriggi d’estate, tu gli parli ma non rispondono, sono assorti, quasi assuefatti. A me con Facebook capitava la stessa cosa.” (Benedetta Perilli, Inchieste di RepubblicaEspresso, 15 settembre 2015)
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
Seppure sia piuttosto giovane, Benedetta Perilli è comunque adulta. Il suo è il racconto di chi si accorge di essersi lasciato andare ad un eccesso di coinvolgimento in uno dei social media più diffusi e però se ne tira fuori senza eccessive difficoltà, provando così il senso della liberazione da un incubo. Ce la fa da sola, con le sue forze, riflettendo e decidendo. Riconquista il controllo di sé. Non si accontenta più di amicizie elettroniche e cerca di nuovo soddisfazione nei rapporti umani reali. Il suo può ritenersi dunque un comportamento maturo.
Ma che cosa dimostra il racconto di questa esperienza di dispersione nel sociale virtuale? Dimostra ancora una volta che la tecnologia di per sé non è né buona né cattiva: permette di fare cose che senza di essa sarebbero difficili o impossibili e però può diventare una trappola micidiale se la si usa in modo sbagliato. In fondo il problema è tutto qua. La questione dell’abuso di Facebook, una forma di dipendenza, rinvia pertanto, come in tutti gli altri casi, allo stato di equilibrio o disequilibrio psichico della persona. È il tema dell’origine delle dipendenze, che riguarda anche gli adulti, ma che è particolarmente serio e delicato nel periodo dell’adolescenza, quando la crescita si connota come ricerca dell’identità personale e conquista dell’autonomia.
Anzi, mentre l’adulto può sì cadere in una delle diverse forme possibili di dipendenza ma ha anche strumenti per tirarsene fuori (anche se non sempre funzionano), non è così per l’adolescente se l’ambiente di vita (famiglia, scuola, amici) non lo aiuta a superare senza eccessivi traumi la fase di distacco dai legami dell’infanzia ed a conquistare quella capacità di gestire le emozioni che caratterizza l’avvenuto passaggio all’adultità. Purtroppo, mentre fanno rumore le dipendenze evidenti, dalle droghe all’alcol, dai videogiochi a internet, quasi sempre rimane nascosta quella che in realtà è all’origine di tutte le altre, che è la dipendenza affettiva. Anche l’esibizionismo e il bisogno di riconoscimento sociale di cui è manifestazione la dipendenza dai cosiddetti social media, come dimostra anche il racconto di Benedetta Perilli, trova infatti la sua origine nella mancata o nell’insoddisfacente soluzione del problema della dipendenza affettiva nel periodo adolescenziale, che a sua volta nel corso della vita può dar luogo, in determinate circostanze, a difficoltà anche molto serie di gestione delle proprie emozioni.
Ma si possono educare le emozioni, o meglio, si può intervenire in modo appropriato per insegnare a padroneggiare le proprie emozioni? Si, ci sono modalità ben studiate ed efficaci per rendere consapevoli sia gli adolescenti che gli adulti di quale sia il cammino verso il benessere personale e la costruzione di rapporti affettivi interpersonali e familiari stabili. Naturalmente, che poi quel cammino si riesca effettivamente a percorrerlo dipenderà sia dalla volontà e dalle capacità personali che dalle circostanze della vita. Ma intanto sarebbe grande cosa se si capisse finalmente che la cura delle questioni attinenti la sfera emotiva e delle relazioni nel periodo dell’infanzia e dell’adolescenza è di importanza capitale per un equilibrio psichico che deve durare tutta la vita.
L’opinione di Pier Luigi Leoni
Vi sono invenzioni moderne delle quali è quasi impossibile fare a meno, come l’automobile e il telefono. Ma facebook è un’altra cosa. Se ne può fare tranquillamente a meno senza compromettere affari, amori e amicizie. Ma è un’alternativa divertente al bar e agli altri posti dove si chiacchiera del più e del meno. Certo, è un modo di esporre a un pubblico potenzialmente sconfinato anche i nostri limiti e, nelle sciocchezze postate dagli altri, ci specchiamo e acquisiamo maggiore coscienza anche della nostra pochezza. Ma, proprio per la sua pubblicità, facebook è uno sfogatoio più di buoni sentimenti che di malignità. Anche perché le malignità si rischia di pagarle sul piano giudiziario, al contrario dei pettegolezzi con cui vengono dilaniate le persone nei bar, nelle cene tra amici, nelle conversazioni per strada, nei negozi e in ogni luogo in cui due o tre persone conversano con l’assillo di parlare bene di se stesse e male delle altre. Chi si ritiene troppo intelligente per tollerare le banalità che gli arrivano con facebook, può selezionare le amicizie a uso e consumo della propria autostima. Ma chi è troppo fragile e cade nell’assuefazione, come sembra sia capitato a Benedetta Perilli (che però, secondo me, non si propone di essere sincera, ma solo di scrivere un articoletto spiritoso) è bene che lasci perdere. È più facile mollare facebook che le sigarette, il gratta e vinci e la passione per Juve. E poi va tenuto conto che in un ambiente stretto come Orvieto, dove t’imbatti continuamente per strada in amici di facebook, i saluti di cortesia si arricchiscono di sorrisetti, ammiccamenti e, a volte, di battutine gustose.
La proposta di Barbabella a Leoni
Sottovalutare l’importanza dei beni culturale è peccato imperdonabile degli italiani
“Sappiano i romani cosa significa vivere come gli italiani, ossia in comuni senza un soldo. Il Colosseo e altri siti archeologici di Roma sono rimasti chiusi qualche ora per assemblea sindacale: embè? Il Colosseo è lì da duemila anni, ci sarà anche domani e anche domani permetterà ad albergatori e ristoratori della capitale di essere costosi e scortesi e scadenti come sempre. Ci si preoccupi piuttosto di come sono ridotti i musei del resto d’Italia. Dal Veneto alla Puglia io quest’estate ho visto dei gran portoni chiusi: chiusi i musei comunali, perché i comuni non possono più pagare i guardiani, chiusi i musei diocesani, perché le diocesi spendono tutto in misericordia e niente in memoria, chiusi i musei delle fondazioni, perché gli sponsor si sono estinti. A Rimini il museo era aperto ma il personale sembrava, per colore della pelle e conoscenza della lingua, appena sbarcato (forse gli italiani laureati in storia dell’arte pretendono di essere pagati, chissà). Invece a Rovigo un cartello rimandava la riapertura a data da destinarsi. Al culmine di questo viaggio nella mia terra desolata mi sono sentito come Eustachio da Matera, uomo di un secolo antico eppure analogo: “Piango il destino delle città d’Italia, e la rovina del mondo”. Che poi non capisco la smania plebea di visitare il Colosseo, l’anfiteatro romano è un luogo di morte mentre nella pinacoteca rodigina è conservata la Venere del Mabuse, tettine tonde e culo grosso, insomma la vita.” (Camillo Langone, Il Foglio, 19 settembre 2015)
Ci si può scherzare sopra quanto si vuole. L’ironia esorcizza la tristezza. Ma resta il fatto che l’Italia non è, per cultura, capacità organizzative e mezzi finanziari, all’altezza del proprio sterminato patrimonio culturale. Mi commossi quando, visitando l’Ermitage a San Pietroburgo, mi resi conto che tutto quel ricchissimo museo gravitava attorno a due quadretti di Leonardo da Vinci. Non mi sembra che gli stranieri abbiano validi motivi per apprezzare molto gli Italiani, ma senz’altro apprezzano i paesaggi e i monumenti italiani e le opere d’arte che affollano i musei, le chiese e i palazzi. Ci dovremmo vergognare, e infatti ci vergogniamo. Per questo non riesco a non apprezzare quell’antipatico ed esagitato narcisista che è Vittorio Sgarbi, quando s’indigna, sbraita e insulta i responsabili del cattivo stato dei nostri beni culturali. Ho perso la fiducia nel governo e nella scuola. Spero soltanto che il declino della nostra economia susciti una moltitudine di giovani cercatori d’oro che, invece di bighellonare o andare alla ricerca di un lavoro che non c’è, s’attrezzino per riconoscere l’oro rappresentato dalle opere dell’arte italiana, per difenderlo appassionatamente, valorizzarlo e ricavarne un vita dignitosa.