di Mario Tiberi
Ad ognuno di noi capita di assistere, per libera scelta o per masochistico gioco, ad assemblee, conferenze, dibattiti, tribune televisive o radiofoniche, nel corso delle quali i politici invitati in qualità di ospiti o di relatori espongono, spesso tirandosi chiassosamente gli orecchi l’un l’altro, le loro linee di indirizzo ideale e/o di piattaforma programmatica.
Ce ne fosse mai uno che non si proclami fautore dell’ascolto della società e dei suoi bisogni, contrario ad una gestione del potere oligarchica e clientelare, promotore di uno stile politico ispirato all’onestà e alla verità e su questi temi, dall’estrema destra all’estrema sinistra, si trovano tutti concordi solo e soltanto sul piano delle pie intenzioni verbali per poi, nelle realizzazioni concrete, ritrovarsi in disaccordo su tutto.
Pensano, spesso e volentieri fingendo, di essere dei “popolari”, mentre invece sono solo dei populisti!.
Bisognerà, allora, tentare di andare alla ricerca delle ragioni e dei principi del “popolarismo” per comprendere meglio il perché, nella politica urlata dei giorni nostri, sono prevalenti gli accenti di leziosa e demagogica accademia sulle volontà più squisitamente improntate alla serietà delle analisi sulle contingenze del presente e alla coerenza, rispetto ad esse, di conseguenti risposte risolutive suggerite dalle analisi stesse.
Il “Documento Principe”, a tal proposito, è rappresentato dallo “Appello ai Liberi e Forti” lanciato da Luigi Sturzo nel Gennaio del 1919 da una francescana cameretta della pensione “Santa Chiara” in Roma. Detto Documento costituisce la pietra miliare nella storia del cattolicesimo democratico italiano e contiene i caratteri fondamentali di quello che sarà poi definito “popolarismo”, una sorta di trasposizione in politica dei principi solidaristici ed etici contenuti nel “Pensiero Sociale Cristiano”.
Riforme sociali, partecipazione degli operai alla vita delle fabbriche, cooperative di lavoro e di consumo, istituti di credito a sostegno degli artigiani e commercianti, società di mutuo soccorso, ordini professionali, scuole per l’istruzione giovanile e popolare, prime forme di associazionismo sindacale organizzato, decentramento amministrativo, riconoscimento giuridico della piccola proprietà rurale contro il latifondismo: ecco i capisaldi del nuovo modo di pensare ed agire che contraddistinsero quegli anni intensi e fecondi.
Antonio Gramsci salutò l’imminente costituirsi dei cristiani in partito politico come il “fatto storico più importante dopo il Risorgimento”; Federico Chabod considerò la nascita del Partito Popolare Italiano come “l’avvenimento più notevole della storia italiana del ventesimo secolo”: questo per dire quanto sia stata rivoluzionaria la pubblicazione dell’Appello ai liberi e forti.
Oggi più che mai, quando pare essersi smarrita la strada maestra di una politica a beneficio di tutti, ritornano severe ed ammonitrici le parole tratte dagli insegnamenti di maestri dalla statura morale ineguagliata e, probabilmente, ineguagliabile.
Ed è triste e deprimente assistere alla misera girandola delle convenienze e delle poltrone, alla caduta in tentazione di certe gerarchie ecclesiastiche che si prestano ancora ad esercitare un potere temporale in funzione di garantirsi la copertura di personaggi che di “popolarismo” non sanno picche, alla stolta e dissennata pratica di affidare la guida di partiti che si autodefiniscono “popolari” a figure di riferimento provenienti da esperienze maturate all’interno della neo-borghesia liberista e conservatrice.
Un partito davvero popolare dovrebbe, invece, possedere un’unica bussola di orientamento: il perseguimento della giustizia sociale, civile e legalitaria, fulcro e perno attorno alla quale dimensionare i valori del diritto al lavoro, alla casa, alla salute e all’istruzione.
La nuova frontiera del “popolarismo” può essere racchiusa nella siffatta sintesi, espressa nella lingua che è la sintesi lessicale per eccellenza: “Si vis pacem, para iustitiam et, ex verbis, ad facta iustitiae”. La pace e l’equilibrio sociale sono garantiti dalla giustizia, quella dei fatti e non delle sole parole.
Primo, sul banco degli imputati, siede proprio il Partito Democratico, cicaleggiantesi riformatore e progressista nei propositi e negli intenti, ma intriso invece di mero conformismo conservatore negli atti e nei comportamenti effettuali. Il PD, agli occhi di ampie fasce di popolo, appare alla stregua di un partito tristissimo e imbalsamato di cui è tenutario “pro tempore” un ambiguo “clan” di comparse anonime quanto inconcludenti, autarchiche quanto respingenti, vacue quanto indifferenti alle reali istanze popolari.
Per concludere: essere o diventare “populisti” è semplice e poco impegnativo; basta, infatti, mettere sotto lucchetto animo e cuore ed evitare di rispondere alla propria coscienza; essere o diventare “popolari” è ben più arduo perché è richiesto di anteporre il giudizio di coscienza agli interessi e ai tornaconti individualistici e/o di fazione partitica.
Dalle considerazioni che precedono risulta evidente, semmai ve ne fosse ancora bisogno, che tacciare di populismo il M5S suona come sconsiderata e infamante bestemmia.