OPINIONI DEL LUNEDI 31 agosto 2015 n. 3
La proposta del direttore Dante Freddi
Sharing economy. Perché ci riguarda
“Gli entusiasti dei beni messi in comune ne sottolineano l’etica socialista. Ma c’è chi teme che l’approdo finale sia il liberismo e la nascita di nuovi monopoli. In ogni caso siamo all’inizio della terza rivoluzione industriale. Chiamatela sharing economy, economia della condivisione o gig economy, come dicono gli americani: economia dei lavoretti, fatta di impieghi precari. Ma potete parlare anche di microimprenditoria, sarete comunque nel giusto. Le parole non mancano, per raccontare questo fenomeno che sta cambiando il mondo – il problema è che sono parole in contraddizione tra loro: perché ne raccontano spicchi, il quadro d’insieme non ce l’ha nessuno. L’economia della condivisione in realtà è divisiva, perché incarna opposti. Evoca l’etica del condividere e il liberismo più sfrenato; la fine della proprietà privata e la creazione di moloch monopolistici; rende ciascuno micro-imprenditore di se stesso, capace di far fruttare al meglio i suoi talenti e risorse (auto, oggetti, casa), ma può anche farci tutti più poveri e insicuri. Per l’economista Jeremy Rifkin è la Terza Rivoluzione Industriale, e quando l’avremo attraversata tutta nulla, probabilmente, sarà più come prima: non il concetto di proprietà, non il lavoro, non le nostre città. Come saremo? Per ora possiamo ipotizzare scenari.
Il migliore dei mondi possibili. Secondo Rifkin, il capitalismo è destinato a sparire, travolto dall’economia collaborativa. Nella quale – grazie a nuove tecnologie e piattaforme social – ciascuno può diventare produttore/fornitore di beni e servizi a costi irrisori. Si può lavorare, viaggiare, mangiare, divertirsi in modo alternativo ed economicamente sostenibile – purché ci sia fiducia reciproca. La reputazione online diventa la vera carta d’identità di ciascuno.
E se invece fosse un incubo? Gli apocalittici nella sharing economy vedono scenari ansiogeni. «La Gig economy crea insicurezza e rischio», ha scritto il Financial Times, sottolineando l’ascesa in Europa del Precariat: giovani che si arrabattano tra mille lavoretti precari. Per The Atlantic l’evaporazione del lavoro sta creando un mondo di freelance che combattono tra loro e con la robottizzazione del lavoro.
Forse, se si oscilla tra accuse di neofeudalesimo ai signori della sharing economy e inni scespiriani al Magnifico Mondo Nuovo, è perché al fenomeno si ascrivono cose troppo diverse tra loro: giganti come Airbnb (che in Italia dal 2008 ha fatto soggiornare 2,7 milioni di viaggiatori) e la signora Maria che cucina una porzione di pasta in più e la offre su MamaU o Cucinaecondividi. Vero è che una cosa in comune ce l’hanno: il bisogno di un orizzonte più vasto. Nella logica della sharing economy c’è il consumo consapevole, basato su riutilizzo invece che acquisto, accesso invece che proprietà. Il principio? Si vive bene anche senza possedere, anzi: possedere può diminuire la qualità della vita. Dietro la condivisione c’è voglia di un nuovo modello economico, capace di suscitare passione. Per questo gli economisti si stanno prendendo i riflettori prima puntati sugli archistar: perché sono loro a progettare utopie possibili. Condivisibili.” (Valeria Palermi, L’Espresso 14 agosto 2015)
L’opinione di Pier Luigi Leoni
L’articolo proposto dal Direttore, infarcito di barbarismi non sempre utili, è un affastellamento di tesi appena accennate, apparentemente suggestive, piluccate dalla rete. Con un componimento del genere mi avrebbero giustamente bocciato alla maturità. L’unico senso complessivo che se ne può ricavare è che, anche in tema di economia, siamo ancora all’uomo di Popper, quello che si trova in una stanza buia per cercare un cappello nero che forse non c’è. Ma ciò che maledettamente non entra nel cranio degli economisti è che i popoli non sono tutti uguali, come non sono uguali gli individui. Come ogni persona reagisce col proprio temperamento all’influenza dell’ambiente, così ogni popolo reagisce in modo diverso alle dottrine e alle prassi economiche che via via entrano in circolazione. Se andavate a dire a un contadino comunista che il PCI, in caso di vittoria, avrebbe imposto i kolchoz, vi saresti sentiti rispondere che non eravamo in Russia e che il marxismo italiano avrebbe tolto la proprietà della terra ai padroni per darla ai contadini. Grosso modo, quello che hanno fatto i democristiani. Quindi non è mai troppo tardi per prendere atto della riflessione economica del tutto originale della cultura italiana, che maturò nel secolo XVIII (Antonio Genovesi, Gaetano Filangieri e altri) e che, senza negare l’importanza fondamentale dello Stato e dell’economia for profit, assegna all’economia no profit il compito di umanizzare anche gli altri settori. Non era forse italiano quel genio visionario di Adriano Olivetti, che, valorizzando l’essenza comunitaria dell’azienda capitalistica, ottenne risultati così sbalorditivi da costringere gli americani a intervenire per stroncarlo? Se gli americani non ci avessero messo le mani, l’Italia dominerebbe oggi il mondo dell’informatica. E, se guardiamo alla nostra piccola Orvieto, che fine farebbero i servizi sociali e assistenziali se sparissero le cooperative? Di esse si rimarcano le difficoltà gestionali e gli ambigui rapporti con la politica, ma si dimentica che sono sempre più indispensabili.
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
L’articolo di Valeria Palermi coglie gli aspetti più appariscenti di questo fenomeno che con termini americani chiamiamo sharing economy o gig economy. In realtà siamo ormai ad uno stadio ancor più complesso indicato con il termine crowd economy, che conosce già un grande sviluppo negli USA ma che incomincia a diffondersi anche in Italia (il primo meeting italiano sulla crowd economy si è tenuto nello scorso mese di marzo a Venezia).
Vediamo succintamente di che cosa si tratta. Tutto cominciò con la diffusione delle tecnologie digitali. Poi, nel 2010, Rachel Botsman, volendo indicare il carattere saliente del modo di consumare che allora si stava affermando caratterizzandosi per l’orientamento al riuso e alla condivisione di beni sottoutilizzati, parlò di consumo collaborativo. Dopo soli due anni lo scenario era già diverso: non si scambiavano più solo beni ma anche denaro, spazio e servizi. Era nata la sharing economy, l’economia della collaborazione, e in poco tempo si affermarono le grandi piattaforme dei servizi che oggi sono presenti a scala planetaria (Uber, Airbnb, Timerepublik, UpWork, ecc.). Di qui il rapido passo successivo, la crowd economy (qualsiasi movimento collettivo che mira a costruire qualcosa di più grande), con le sue varie articolazioni: il crowdsourcing, il crowdfunding, l’open innovation, cioè la conoscenza collettiva, la co-creazione, il lavoro su cloud, insieme alle attività precedenti, dall’impegno civico al consumo collaborativo.
Come si vede, uno sviluppo esponenziale dell’applicazione delle tecnologie digitali ai diversi aspetti della vita quotidiana delle persone in tutto il mondo in cui quelle tecnologie si sono affermate con espansione a macchia d’olio. Se vogliamo parlare di rivoluzione industriale, in analogia con la prima (seconda metà settecento) e con la seconda (ultimi decenni dell’ottocento), dovremmo parlare non tanto della terza (già avvenuta nella seconda metà del novecento con la produzione, oltre che dell’energia nucleare, delle tecnologie informatiche) quanto della quarta, caratterizzata com’è questa da aspetti che nelle altre erano, e non potevano che essere, del tutto assenti: un nuovo modo di concepire e di fare azienda, il superamento del concetto di proprietà e la prevalenza del concetto di servizio, il rapporto diretto domanda-offerta (per questo si parla anche di on-demand economy). Capacità e interesse individuale, socialità più apparente che reale, welfare marginale, business per business, ma anche costi più bassi, servizi alla portata, comodità prima impensabili. Incertezza e precarietà certo, insieme tuttavia a opportunità sia come risposta a bisogni che come creazione di nuovi bisogni.
Siamo insomma dentro processi di trasformazioni epocali (in parte sollecitati dalla crisi economico-finanziaria di questi anni, in parte come ampliamento dei campi di applicazione delle tecnologie digitali) e come tali pieni zeppi di limiti, problemi nuovi che si sovrappongono spesso a problemi storici, e contraddizioni lampanti. Non mi addentro in questo groviglio, ma per capirci basta catturare il senso di quanto ha affermato recentemente una studiosa di questi fenomeni come Marina Gorbis (autrice di un libro di successo come The Nature of the Future): “ora è il momento di intensificare la più grande attività di progettazione che il mondo abbia mai intrapreso: ripensare il futuro del lavoro stesso dal punto di vista delle persone che lavorano”.
In un simile quadro discettare se siamo in presenza di un’etica socialista o corriamo il pericolo di uno sfrenato liberismo, mi sembra francamente una pura esercitazione salottiera di gente disperata che ha a disposizione consunti schemi mentali che non si decide a mettere nel ripostiglio dei ferrivecchi. Converrebbe semmai esercitarsi in tutti i luoghi in cui è obbligatorio occuparsi di futuro non solo chiedersi come esso sarà, ma come possiamo se non costruirlo almeno indirizzarlo a vantaggio di tutti. E questo vale anche a livello delle comunità locali. La domanda è semplice: che cosa possiamo fare qui ed ora, soprattutto quando non lo avessimo già fatto (e per gran parte in effetti non lo abbiamo fatto)?
La risposta invece non è per niente semplice, ma alcune indicazioni sensate mi sembrano possibili:
- In primo luogo bisognerà disporre delle reti superveloci: ne abbiamo diritto tutti, indipendentemente dalla massa critica che le diverse realtà possono sviluppare.
- In secondo luogo sarà necessario incrementare non solo in quantità, ma soprattutto in qualità, le conoscenze e le competenze digitali della popolazione, riducendo drasticamente il digital divide che è già e, se non vi si ci porrà rimedio, sarà sempre più un grave handicap per la qualità della vita delle singole persone, per lo sviluppo e il lavoro, e perciò per i caratteri stessi dell’organizzazione sociale.
- In terzo luogo sarebbe da subito necessario utilizzare le opportunità offerte dalle tecnologie digitali per dare spessore e organizzazione moderna all’offerta turistica territoriale, al di là di quanto fanno o vogliono fare i singoli operatori.
- In quarto luogo sarebbe quanto mai utile che qualcuno utilizzasse anche dalle nostre parti ciò che consentono specifiche piattaforme digitali per far incontrare domanda e offerta in vari ambiti, anche qui al di là della logica del riuso e del consumo condiviso.
Siamo appena all’inizio di cambiamenti importanti che, come sempre e in misura rilevante, possono essere governati. Se non vogliamo subirli, dovremo dunque darci da fare, ovviamente tutti, ma in primis coloro che hanno responsabilità nel governo delle cose pubbliche.
La proposta di Leoni a Barbabella
Denominazioni comunali dei prodotti tipici ferme al palo dal 2012
Nella primavera del 2012, su proposta del consigliere Pier Luigi Leoni, il consiglio comunale di Orvieto istituì le De.Co., cioè le denominazioni comunali per i prodotti locali.
Riporto alcuni stralci del regolamento:
«Il Comune individua e sostiene i prodotti in senso lato (prodotti dell’artigianato e dell’arte culinaria, ricette, tradizioni, feste ecc.) che contribuiscono, con la loro peculiarità, a formare l’identità della comunità insediata nel territorio di Orvieto.
Il Comune istituisce un Registro dei prodotti individuati come meritevoli del marchio De.Co.
Il Registro riporta la denominazione del prodotto, le sue caratteristiche, la sua storia e gli elementi che ne spiegano la peculiarità orvietana.
Le proposte di iscrizione nel Registro possono essere fatte da chiunque.
Sulla ammissibilità della iscrizione nel Registro si pronuncia una Commissione nominata dal Sindaco.
La Giunta comunale approva il logo del marchio De.Co. di Orvieto nel quale è riservato uno spazio alla denominazione del singolo prodotto.
Il logo può essere utilizzato sulle confezioni dei prodotti e su tutti gli strumenti di informazione culturale, turistica e commerciale che riguarda i prodotti stessi.»
Il regolamento non è stato mai attuato. Se ne è accorta la consigliera comunale Lucia Vergaglia, del M5S, che ha affermato: «Abbiamo già perso l’Expo delle tipicità, adesso non perdiamo il treno dei marchi d’area e del Giubileo. Non tocca a noi ma abbiamo già i prodotti da cui partire ed i nomi per la Commissione di valutazione, loro sono fermi dal 2012: cosa aspettano?»
L’opinione di Barbabella
Dico subito che l’idea di istituire il Registro dei prodotti De.Co. è una ottima idea e il relative regolamento parla di per sé di una cultura dell’identità locale nient’affatto nostalgica ma al contrario molto proiettata su un rapporto dinamico con il mondo contemporaneo, con le sue curiosità, le sue illusioni e perfino le sue fisime. A dire il vero si può leggere anche come una bella sfida in direzione della modernizzazione rivolta ad un mondo delle imprese tendente a fare di ognuna di esse un’isola, indifferente alle possibilità/necessità di fare massa critica, se non come territorio, almeno a livello di settore. Idea ottima in sé, eppure di per sé incapace di decollare. Qualche ragione ci sarà. Le imprese? L’amministrazione? La città e la sua classe dirigente? Il clima culturale diffuso? Forse tutto questo insieme.
Mi si permetta per questo di citare un altro episodio che denuncia una stretta parentela con quello dei prodotti De.co. si tratta dell’intitolazione di una via centrale di Orvieto a Ermanno Monaldeschi della Cervara. Non dico chi era questo personaggio, tanto è nota la sue figura e la sua importanza nella storia della città e del territorio, qualunque sia il giudizio che se ne voglia dare. Questa proposta fu presentata da me con una mozione in Consiglio comunale firmata da tutti i capigruppo su esplicita richiesta di Jader Jacobelli fattami durante la presentazione di un suo libro dedicato appunto a Ermanno. Essa era inserita nel quadro di un’idea di modernizzazione del turismo fondata sulla revisione delle informazioni storiche di vie, piazze, monumenti della città (ad esempio con apposite targhe multilingue e apposite carte con itinerari consigliati) in funzione di una visita fondata sul gusto della scoperta, e quindi rivolta a persone che non si accontentano del mordi e fuggi, un target sempre più in espansione.
Quella proposta fu approvata all’unanimità dal Consiglio. Ma, nonostante sia stata da me stesso più volte richiamata finché sono stato in quel consesso e anche dopo, non è stata più presa in considerazione. E non mi si dica che non ce ne sarebbe bisogno, magari con le opportune correzioni rese possibili dallo sviluppo delle tecnologie digitali. Ma appunto è anch’essa sparita dal panorama delle idee tradotte in indirizzi cogenti da parte del Consiglio comunale.
La questione dunque diventa più seria di quanto non lo siano le occasioni che la sollevano. Si tratta infatti certo, come dice Vergaglia, di non continuare a perdere occasioni, ma se mi è concesso si tratta anzitutto del rispetto della funzione del massimo organo rappresentativo della volontà popolare. Non rispettare le deliberazioni del Consiglio, soprattutto quando siano state approvate all’unanimità, nei fatti equivale a non rispettare la volontà generale della città. Questa è la questione principale che emerge in questo come nell’altro caso che ho ricordato. Ma ormai siamo all’epoca del tiè e dà qua, e chi si preoccupa più di tali questioni?