La proposta del Direttore Dante Freddi
Nuovo accordo quadro per la Piave, sarà la volta buona?
“Come anticipato nei giorni scorsi dal Sindaco al Consiglio Comunale in occasione dell’approvazione del Bilancio di previsione 2015, la Giunta ha approvato lo schema del nuovo accordo quadro tra Fondazione Patrimonio Comune e Comune di Orvieto per la gestione e valorizzazione del patrimonio immobiliare pubblico (che sostituisce integralmente il precedente Accordo Quadro sottoscritto tra le parti in data 6 settembre 2012). L’accordo verrà sottoscritto nei primi giorni di settembre da Alessandro Cattaneo, Presidente della Fondazione Patrimonio Comune dell’ANCI e dal Sindaco di Orvieto, Giuseppe Germani. Come è noto, l’ANCI ha costituito Fondazione Patrimonio Comune al fine di sviluppare e diffondere la cultura della valorizzazione e della gestione attiva del patrimonio di proprietà dei Comuni italiani, supportando e collaborando con tutti i soggetti, sia pubblici che privati, interessati a compiere operazioni straordinarie sugli asset degli enti locali. Nel luglio 2012 il Comune di Orvieto aderì al Progetto Patrimonio Comune sottoscrivendo apposita convenzione quadro. Il Progetto Patrimonio Comune prevede tre livelli differenti di supporto e accompagnamento:
- I Livello: supporto per l’acquisizione dei beni di cui al decreto sul Federalismo Demaniale (attività fornita gratuitamente)
- II Livello: aggiornamento normativo sulle opportunità esistenti e relative al tema della Valorizzazione, nonché supporto per la definizione di specifici progetti/azioni (attività fornita gratuitamente);
- III Livello: affiancamento in relazione a una o più delle tre fasi di lavoro previste dal Progetto “Obiettivo Patrimonio Immobiliare”. Con particolare riferimento a: Censimento (mirato alla conoscenza del proprio patrimonio e culminante con l’acquisizione da parte dell’ente di un data base informatico contenente tutti i dati relativi a ciascun cespite posseduto); Analisi del portafoglio immobiliare in cui i dati relativi al patrimonio immobiliare sono analizzati ed interpretati con l’obiettivo di predisporre un rapporto contenente delle proposte di intervento per gruppi (cluster) di beni, normalmente nella forma di studio di fattibilità; Attuazione delle scelte strategiche sul patrimonio (dedicata all’attuazione degli interventi decisi dall’amministrazione ad esito della/e fase/i precedente/i).
Le azioni relative a quest’ultimo livello (tutte finalizzate al raggiungimento di obiettivi pubblici e/o di pubblica utilità) possono essere richieste specificatamente dai Comuni, previa sottoscrizione di un Accordo Quadro con il quale condividere, per fasi, le macro attività da sviluppare in partnership tra Fondazione ed Ente Locale. Nell’Accordo Quadro saranno previste, infatti, forme di cooperazione e di suddivisione dei compiti e criteri per rimborsare eventualmente le spese vive sostenute nonché, nel caso di buon esito dei progetti, dei contributi da riconoscere alla Fondazione.” (Comunicato stampa del Comune di Orvieto n. 627/15 del 10.08.2015)
L’opinione di Franco Raimondo Barbabella
Ho sempre espresso con chiarezza le mie opinioni sull’argomento ex Piave e lo farò anche in questa occasione. In generale penso che quando qualcuno ci propone qualcosa che somiglia al manzoniano latinorum sarebbe bene che ci venisse in mente quello che ne pensava lo stesso Don Lisander: è qualcosa che dovrebbe metterci sul chi vive.
Avevo avuto modo di leggere in bozza quello che sarebbe poi diventato nel 2012 il primo Accordo Quadro tra Comune di Orvieto e Fondazione P.C. dell’ANCI ed avevo espresso a chi mi aveva chiesto un parere le mie perplessità, che derivavano dalla conoscenza del problema e non certo (mi sono abituato a guardare sempre avanti) dalla nostalgia di quanto pensato e fatto con RPO Spa. Perplessità sia per il linguaggio che per l’arzigogolo di fasi e procedure, una somiglianza non tanto approssimativa con quanto fantasiosamente immaginato dopo la liquidazione di RPO (ricordate il concept e il teaser del 2007?). Non a caso quel modo di fare aveva portato prima alla proposta dell’Associazione Civita che non si era potuta esaminare per vizio di forma, e successivamente al tentativo (per fortuna fallito) della vendita del bene a quel sig. Casale che poi svelto svelto era finito ospite delle patrie galere. Perplessità debbo dire inoltre rafforzata dalla netta impressione che ormai si agisse nella convinzione che quel bene straordinario non fosse più un’opportunità ma un peso di cui liberarsi.
Nel frattempo la confusione sul che fare regnava sovrana: dopo aver minato le possibilità di una visione progettuale coerente smembrando l’area con la presenza di uffici e attività di tutti i tipi, addirittura si vagheggiava la vendita della palazzina comando nello stesso momento in cui si continuava a tenerci dentro una scuola. Idea certamente bislacca, non resa meno grave dal fatto che, come si diceva sottovoce, quello fosse solo un espediente per tenere in piedi un bilancio altrimenti ingestibile. Questo lo sfondo del primo Accordo Quadro, che nulla modificava delle fallimentari logiche seguite dopo il 2006 e che anzi per certi aspetti le rafforzava. Così si è andati avanti per altri tre anni che, aggiunti ai sette precedenti, al momento fanno esattamente dieci da quando nel 2005 il Consiglio comunale approvò il business plan di RPO. Come si sa, con risultati zero, tranne la proposta di Global Campus per studenti universitari di ogni parte del mondo avanzata da un soggetto privato di cui abbiamo letto qualcosa sui giornali alcuni mesi fa.
Oggi veniamo informati dell’arrivo di un secondo Accordo Quadro tra Comune e Fondazione Patrimonio Comune. Leggendo il comunicato che ne da l’annuncio, purtroppo ho la stessa impressione che mi suscitò il primo. Mi auguro che sia un’impressione sbagliata e che ora si raggiunga un risultato positivo, non solo rapido ma adeguato alla sua importanza. Tuttavia, proprio perché mi auguro che si voglia non un risultato qualsiasi ma uno adeguato alle aspirazioni e ai bisogni della città, mi permetto di fare qualche domanda.
Si è pensato a quali funzioni affidare all’area di Vigna Grande come motore di un’operazione ambiziosa e ben fatta per il rilancio della città, come tale capace di conferire senso e vitalità anche alle altre aree e agli altri immobili pubblici dentro un disegno più complessivo a dimensione urbana e territoriale? Si è pensato perciò al recupero di un’indispensabile unitarietà di progetto dell’intera area, chiudendo la fase dello spezzettamento che tanti danni ha già prodotto, e operando per la ricollocazione in altri immobili sia della scuola che degli uffici? Si è pensato a come stabilire un legame di coerenza delle possibili destinazioni dell’area di Vigna Grande con quelle dell’area dell’ex Ospedale e con le altre emergenze pubbliche? Ci si è finalmente convinti che, dopo averne impedito il riuso e aver perso tempo per dieci anni, sarebbe da considerare irresponsabile arrivare ad una vendita (anche parziale) degli immobili dell’ex Piave, che di fatto oggi sarebbe solo una svendita e come tale (visto anche che ci sono altre strade) da denunzia per danno erariale? Che fine ha fatto poi la proposta di Global Campus? C’è coerenza tra quella proposta e questo secondo Accordo Quadro? E se sì, si sta pensando a come e dove sviluppare le altre vocazioni strutturali della città?
Infine, bisognerebbe rivolgere all’Amministrazione la domanda delle cento pistole: vuole sul serio e in che modo riprendere in mano le redini della città e governarne la necessaria trasformazione? Ne ha l’occasione. Metta insieme Progetto aree interne, Parco urbano del Paglia, Parco archeologico-ambientale territoriale e Area di Vigna Grande (questa a sua volta coordinata con una coerente ridestinazione di altri edifici pubblici anche non comunali) e avrà delineato un futuro per gli abitanti di oggi e per le prossime generazioni. Ma non deleghi tutto (ideazione, procedure, interventi, gestione) per ognuna di queste opportunità a soggetti necessariamente privi di visione e di interesse generale. Faccia valere un’unità di prospettiva, affermi una strategia. È una sfida difficile, ma anche bella, e con essa si può vincere.
Voglio essere chiaro anche in conclusione e rendere così tranquilli tutti: non mi aspetto risposte, anzi, mi meraviglierei se qualcuno sentisse il dovere di darmele; a me basta aver fatto le domande. Che, immagino, non saranno le ultime, a meno che …
L’opinione di Pier Luigi Leoni
Di buone intenzioni è lastricata la strada per l’inferno. Questo lo sapevo anche quando votai in consiglio comunale il primo accordo quadro con la Fondazione Patrimonio Comune dell’ANCI. Mi tornarono in mente le parole di una canzone di Ornella Vanoni: la mia fede è troppo scossa ormai, ma prego e penso fra di me / proviamo anche con Dio non si sa mai. Quindi auguri di buon lavoro ai savant della Fondazione. Mi si consenta però qualche puntualizzazione prima di esprimere la mia opinione. Il patrimonio (immobiliare) pubblico è costituito da beni che hanno perduto la loro demanialità perché ormai inutili per ospitare servizi pubblici o perché pervenuti all’ente per lasciti e donazioni. Si sono così creati in molti enti, compreso il comune di Orvieto, complessi immobiliari patrimoniali di una certa imponenza. Gestire grossi patrimoni immobiliari è molto complicato sia per gli enti pubblici che per i privati. Con la differenza che quando il privato è incapace o dedito al gioco e ad altri vizi, il patrimonio passa in altre mani più sicure. Invece l’ente pubblico è strutturalmente incapace di gestire un complesso patrimoniale perché, anche quando sia dotato di amministratori e funzionari con la testa sulle spalle, i lacci imposti dalla legge sono stretti e non consentono la libertà di cui gode l’autonomia privata, che comprende anche i relativi rischi. Le leggi cercano, anche troppo, di allentare i lacci, ma resta il limite invalicabile del principio sacrosanto per cui, quando si gestiscono beni altrui (come sono i beni di un comune, che è l’ente esponenziale di una comunità) la gestione deve essere lineare, trasparente, documentata e controllata. Non resta all’ente pubblico che verificare se l’immobile è suscettibile di essere riutilizzato a fini pubblici direttamente (come, ad esempio, una scuola pubblica) o indirettamente (come, ad esempio, degli alloggi popolari). I beni residui è meglio venderli nel modo e nel momento più opportuno, ma senza indugio. Ben venga dunque l’aiuto di un soggetto a ciò deputato come la Fondazione Patrimonio Comune dell’ANCI, ma non senza che il Consiglio comunale abbia discusso, con adeguata partecipazione della cittadinanza, secondo legge e statuto, il ventaglio delle destinazioni di ogni immobile in relazione al tessuto urbanistico, attuale e programmato, del territorio comunale. È l’esercizio di questa funzione pubblica che è da tempo trascurato dal Comune di Orvieto, almeno da quando fu affossato il lavoro della Società a capitale pubblico comunale Risorse per Orvieto, invece di estendere il metodo dello studio e della programmazione ad altre risorse immobiliari pubbliche, anche non comunali, come il carcere e l’ex SMEF. È questa la svolta, a mio avviso, indispensabile e urgente.
La proposta di Barbabella a Leoni
Mobilità degli insegnanti. Lavorare stanca?
“In tutto il mondo non si sfugge al principio: le cattedre sono lì dove sono gli alunni. Ma in un’Italia allergica alla mobilità, al momento d’assumere i precari si urla alla “deportazione”. La situazione è grave, ma non seria. … Una regola di Wall Street dice che i soldi si fanno dove ci sono soldi e il lavoro si trova dove c’è lavoro. Perfetto, perché il denaro non dorme mai e Gordon Gekko è la bussola. Un cappero, Sechi, perché poi ti passa sotto il naso la prima pagina di Repubblica e leggi la lettera di un’insegnante precaria che rinuncia al posto perché deve allontanarsi da casa. Puf! La legge della domanda (di cattedre) e dell’offerta (di insegnanti) in Italia svanisce di fronte alle riforme (buone e cattive), ai sindacati (vecchi e nuovi), ai governi (di destra, di sinistra, di centro, di sopra, di sotto e di sottosopra).” (Mario Sechi, Lavorare stanca, 19 agosto 2015)
Inevitabile, secondo un noto meccanismo della psiche umana, domandarsi: «Che farei se fossi un insegnante precario stabilizzato in un posto molto lontano da casa?» Mi risponderei: «Dipende… Se sono giovane, l’insegnamento pubblico mi piace, non ho altre prospettive concrete e non ho gravi responsabilità familiari, accetto a costo di pesanti sacrifici. Altrimenti mando a quel paese il governo e mi mantengo precario fino a quando mi fa comodo.» In linea generale, sono d’accordo con lo scrittore Giulio Leoni, mio cugino, che ha postato su facebook: «Vedo un acceso dibattito intorno ai precari della scuola, che rifiuterebbero il trasferimento in cambio del posto fisso. E talvolta viene fuori la frase “meno storie, per fame si fa di tutto.” Verissimo, per fame si fa di tutto. E infatti alla fine gran parte di loro accetterà. Resta il fatto che un governo amico del suo popolo dovrebbe adoperarsi per ridurre/abolire la fame dello stesso, non sfruttarla per avere servizi a basso costo. Anche perché una scuola pubblica ridotta a una corte dei miracoli, piena di vuinsegnà, che magari la sera per pagare l’affitto e anche mangiare vanno a fare i parcheggiatori abusivi, non lascia immaginare un grande futuro per i nostri figli.
E’ gradito l’intervento dei lettori. Chi vuole può inviare il commento al mio indirizzo e-mail , dantefreddi@orvietosi.it, e mi farò cura di pubblicarlo a nome del lettore, ovviamente firmato.
Dante Freddi