di Mario Tiberi
La canicola di questa torrida estate avrà senz’altro indotto alcuni a canticchiare al rovescio la popolare canzone “Luglio”: e, infatti, sia l’afa opprimente e sia l’angosciosa incertezza del nostro avvenire, civico e nazionale, soffocano irrimediabilmente in gola ogni nota musicale per concedere un unico spazio a delle esternazioni irrituali se non del tutto stravaganti.
Sembra che non vi sia più spazio per le azioni di coerenza, per i comportamenti di responsabilità e per gli atti di coraggio, ma ogni dimensione appare assorbita da un termine, “manovra ”, che è già di per se stesso un vocabolo incutente timore in quanto ambiguo e il più delle volte apportatore di sacrifici.
Ecco così che anche la manovra economico-finanziaria di riequilibrio dei conti pubblici, in fase di approntamento da parte del Governo centrale, non potrà sottrarsi alla connotazione di necessarietà imposta dalla negativa congiuntura internazionale e, pur tuttavia, sarà inevitabilmente mal digerita dalle sempre più scarne ed esangui tasche dei tartassati contribuenti italiani.
Al di là di ogni giudizio di merito, ritengo di poter affermare, con ragionevole certezza, che l’attuale politica economica governativa sia pregna del sapore acido di contrarietà alla moralità pubblica poiché fortemente caratterizzata da soverchianti elementi di metodologia classista.
Mi spiego meglio intendendomi riferire ad un ceto di caste, sempre esistite e da sempre abilmente operative, e che negli ultimi due decenni hanno però mostrato, con maggiore virulenza, i loro acuminati artigli e le loro zanne fameliche. Si tratta delle caste dei magnati dell’alta finanza e dei potentati economici facenti capo alla grande industria e al sistema bancario nel suo complesso e che, pur di non vedere compromessi e intaccati i loro baluardi di forza e di potere, non si creano scrupoli di sorta nel dettare e imporre scelte politiche di pregiudizio e nocumento per gli strati medio-bassi della società italiana. Tutto ciò aggravato, in larga misura, dalla supina acquiescenza di Palazzo Chigi e del suo attuale inquilino.
Eppure uno dei postulati fondamentali, e universalmente riconosciuto come tale, di quella branca delle scienze economiche che prende il nome di Economia Politica suggerisce, obbligatoriamente, di fare perno e leva sugli investimenti per opere pubbliche proprio nel pieno dei cicli depressivi e per mettersi alle spalle le crisi finanziarie e le bufere monetarie temporalmente più a onda lunga e strutturalmente più resistenti. Ovviamente, opere pubbliche affidate nel pieno rispetto delle leggi e della legalità democratica.
Colpire, con rasoiate a lama affilata di scimitarra, Regioni e Comuni, privandoli di ogni possibilità di intervenire nei processi di rilancio dello sviluppo e della crescita, ha la stessa valenza di chi ragiona con la logica del “tanto peggio, tanto meglio”. Gli enti autarchici territoriali non sono così più in grado di commissionare opere socialmente utili perché non hanno denaro da spendere; le imprese private si vedono decurtato gran parte del loro potenziale produttivo e sono costrette a licenziare; le famiglie, orbate del reddito da lavoro, debbono necessariamente rivedere i loro piani di spesa con conseguente drastica contrazione dei consumi individuali: il circuito virtuoso di produzione e scambio si collassa e l’inevitabile sbocco è la funesta entrata in un vicolo buio e cieco.
Gli interventi finora approntati dalle autorità governative non hanno sortito effetti granché benefici a cagione della salvaguardia ad oltranza del patto di stabilità tra prodotto interno lordo e spesa pubblica, produttiva e non, e che può riassumersi nella trilogia delle “tre erre”: rigore, risparmio, riduzioni. Se questo non è come giocherellare al pallottoliere, ditemi Voi cos’è?!?
A ben considerare, ritorna in mente ad impatto immediato la parola chiave che dominò lo scenario nazionale nel periodo della prima crisi petrolifera e che risuona ancora come un incubo: erano i tempi dell’Austerità. Detta voce è sinonimo di impopolarità e, a tutto, l’odierno Presidente del Consiglio sembra poter rinunciare tranne che al suo personale indice di gradimento presso l’opinione pubblica. Non ci vuole molto per comprendere che, “rebus sic stantibus”, il superministro dell’Economia e il Capo del Governo si troveranno quanto prima in piena rotta di collisione.