di Marco Sciarra
Mentre Orvieto risuonava dei fuochi d’artificio di un 4 luglio stelle-e-strisce, la frazione di Sugano stava godendosi una serena e fresca digestione delle abbondanti fritture -tortucce, calzoni e pizzette col sugo- del comitato parrocchiale, assistendo alla nuova commedia della Compagnia delle Vigne.
Se c’è una cosa da invidiare ai suganesi, oltre la fortuna di avere un commediografo in casa e degli attori di talento -il cui reclutamento non varca le colonne d’Ercole di Canonica e Villanova- è il coraggio.
Dopo aver portato in piazza delle vere e proprie commedie e non delle semplici farse, dopo aver toccato l’impegno socio-politico con «Tamurè» e l’intimissima introspezione quasi psicanalitica con «B&B», quest’anno il coraggio è paragonabile a quello di un acrobata che si avventura in un triplo salto mortale senza corda di sicurezza e senza rete.
Il primo avvitamento è stata l’ardita commistione di due generi quasi agli antipodi: la commedia dialettale e la tragedia greca, resuscitata, è proprio il caso di dirlo, nel coro immobile, ieratico, dei quattro fantasmi evocati da una medium approssimativa e truffaldina, versione ruspantissima di una sorta di Whoopi Goldberg di Ghost, a cui per la prima volta le anime si manifestano davvero.
Il secondo avvitamento con le tematiche trattate in maniera aulica dal coro (o meglio, da tre su quattro) con la relativa traduzione dei protagonisti: nientemeno che la morte, eterno tabù cui non possiamo sottrarci, e la verità, e scusate se è poco. Tutto reso con singolare maestria dalle parti cucite addosso agli attori con l’abilità sartoriale a cui Guglielmo Portarena ci ha abituati da tempo.
Il terzo, infine, nel proporre in una piccola comunità storie di vicissitudini familiari ai limiti del raccontabile, con il rischio di riprodurre, inavvertitamente, dinamiche reali, più o meno sconosciute, realmente accadute. Ma, in questi casi, si sa, ogni riferimento è puramente casuale.
Sta di fatto che l’acrobazia di Portarena è riuscita e riuscita bene, tanto che la scenografia fissa ed iper-essenziale e i movimenti scenici ridotti al minimo non hanno fatto che sottolineare l’audace esperimento, che ha divertito anche i numerosi bambini e immigrati presenti tra il pubblico, che riuscivano a cogliere perfino il senso del forbito eloquio delle anime “alte”.
La singolarissima commistione, o meglio compenetrazione, di linguaggi è stata soppesata col bilancino da orafo, con tre anime dell’”al di là” dal linguaggio elevatissimo e tre personaggi (due dell’”al di qua” e uno morto) che riportavano tutto alla quotidianità, bassa ma schietta, dei due protagonisti, impeccabili nei loro ruoli: due anime semplici che, come in “Viaggi di nozze” di Verdone, sono le uniche che reggono agli scossoni della vita e alle rivelazioni dopo la morte, forti della loro semplicità che si nutre di sincerità e rispetto.
Ad unire i due mondi una malcapitata fattucchiera che, pur appartenendo al mondo “basso” voleva dare di sé un’immagine alta, finendo per essere ripagata con la sua stessa moneta. E non poteva essere altrimenti, in un’opera in cui trionfa la verità, seppur con le sue tremende conseguenze, anche per chi non l’ha sollecitata.
Un atto unico che vola via rapidissimo e soave, nonostante affronti, sia seriamente che col sorriso, tanto i totem che i tabù della nostra coscienza.
Una commedia che fa pensare e, infine, commuove con l’estrema semplicità di un gesto sincero.
Il finale a sorpresa corona l’opera, decorandola con quella pennellata di buon senso che inizia a diventare il tratto distintivo delle commedie di Portarena.
Chi se l’è persa e chi vuole riassaporarla in un contesto differente, dovrà tenere d’occhio gli appuntamenti del concorso del teatro amatoriale al Mancinelli. Ne vale davvero la pena.