di Mario Tiberi
Da qualche tempo, ormai, esco di casa meno di frequente per il fatto che la città, alla quale debbo i natali, non mi offre più quelle sensazioni, quegli stati d’animo, quegli stimoli a cui ero abituato sin dalla giovinezza. Concittadine e concittadini chini su se tessi, stanchi rituali di tediosa monotonia, attività private e pubbliche in stato di asfittico sopore: questo è quanto mi è dato di amaramente osservare.
Eppure, non può morir così una città che, nel corso dei secoli, ha saputo sempre ben dimostrare la sua energia vitale, nelle arti, nei commerci, nella originalità dei suoi valori fondanti e nella austerità delle sue millenarie tradizioni civili e culturali.
Orvieto città democratica, solidale e certamente predisposta e sensibile ad affrontare questioni per se medesima nevralgiche, anche le più dolorose, ha però necessità di una repentina risorgenza di ordine prevalentemente etico e di riprendere al più presto la via del confronto dialettico tra le sue componenti popolari per meglio conoscersi e, quindi, per meglio comprendersi. E’uno dei modi, concreti e tangibili, per attuare una politica di avanzamento culturale e di progresso civile dalla quale la indispensabile “Concordia Urbevetana”, bene uno e indivisibile, non potrà che trarne giovamento e impulso.
Necessiterà, dunque e quanto prima, ritornare in Piazza ad esercitare la facoltà dell’isegoria per ascoltare ed essere ascoltati: un ritorno storico in “Piazza Grande”, dove ogni Orvietana e ogni Orvietano avranno il diritto di vedersi riconosciuta almeno una carezza, dopo un lungo periodo di molteplici schiaffi, e dove avranno la possibilità di ritrovare fede e fiducia nel loro futuro e in quello delle generazioni a noi susseguenti.
Ed allora, come primo passo, ci si sbarazzi delle voghe eccessivamente intellettualistiche e salottiere lontane anni-luce dalle reali esigenze e dai pressanti bisogni delle genti comuni, delle malsane abitudini di riunioni in “stanze segrete” dalle quali, ancora con arroganza e supponenza, si pretenderebbe di imporre la volontà di pochi a quella dei molti e il tutto, al contrario, venga invece esercitato senza sotterfugi e nascondimenti. Sotterfugi e nascondimenti: al fine di evitarli, e lo dico per primo a me stesso, andrà adottata come regola di fondo un modo di parlare al popolo che sia diretto, lineare, chiaro, inequivocabile e che rifugga da perifrasi, arzigogoli ed avvitamenti linguistici che allontanano i nostri interlocutori invece di avvicinarli.
Parlare al popolo con chiarezza e coerenza vuol semplicemente significare di riportare, sullo stallo ad essa degno, la politica come arte.
E per ricondurre la politica ad arte, altra via non vi è se non quella di una benefica rivitalizzazione della “arte della politica” e delle strategie ad essa conseguenti, di come si può e si deve tracciare un percorso di presenza nella società al fine di ristabilire il collegamento, ormai venuto meno, con le istanze più vive e sentite da parte dell’opinione pubblica, della necessità di ricreare una nuova stagione in cui lo stile di pensare e di agire di coloro che si riconoscono nell’etica della cultura pubblica ritorni ad essere qualitativamente prevalente e, quindi, riconoscibile ed attrattivo precisando, infine, che una ripartenza dell’iniziativa politica delle forze del cambiamento e pur anco della rivoluzione non può non abbandonare i metodi stantii e nauseanti del “Caballero”, cioè di colui che opera solamente per acquisizione o mantenimento di postazioni privilegiate e/o di mero tornaconto individuale.
Per quel che mi riguarda, torno a ripetere che, seppur appaio un attendibile precorritore di eventi, non sono tanto io che sono andato avanti, quanto piuttosto è la società nel suo complesso ad essere scivolata all’indietro verso forme di qualunquismo, di relativismo spirituale e di “nichilismo” politico dove, ovviamente, le forze della retriva reazione non possono che sguazzare.
Si deve allora ripartire, forse da zero, per industriarsi nel cimento di “Raccontare una Nuova Storia” ad una Città che sappia guardare avanti e in grado di costruirsi con le sue stesse mani il proprio avvenire.