di Fausto Cerulli
Caro Francesco, quando mi hanno detto che sei morto, mi è venuto da sorridere. Ho capito subito che non era vero, che non è vero; e che tu stai facendo un gioco,di quelli Ironici e sfrontati e limpidi che spesso hanno divertito sia te che me. Da quando, allora eri un bambino, ti raccontavo la favola di Francescorte e Faustorte, che eravamo io e te forti come gli eroi dei miti fanciulli; ti tenevo per mano, e tu mi guardavi attento e serio, e scrollavi poi il capo a dirmi che avevi capito il gioco; ma volevi che ogni sera si ripetesse, e guai se cambiavo una virgola. La favola doveva essere sempre la stessa: con la monotonia delle favole vere; che sono le favole di cui si sa che sono favole, e per questo ci sono care.
Sono sceso da Porano ad Orvieto, e sono andato a casa tua; c’era tuo padre, c’era tua sorella, e molti amici. Anche loro stavano al gioco; anche loro dicevano che sei morto. Ma non ho visto il tuo corpo di morto, e dunque non sei morto; quando uno muore, il suo corpo viene disteso su un letto, e intorno gli si mettono fiori. Ma la tua casa non aveva la lugubre presenza di un morto. E allora ho seguitato a sorridere: e qualcuno di quelli che non avevano capito il gioco, mi avranno preso per folle.
Poi mi hanno detto che il tuo corpo di morto giaceva in un ospedale chiamato la Nottola; e allora stavo per scoppiare in una risata: te lo immagini, Francesco, un ospedale che si chiama Nottola, un ospedale pipistrello? Sarebbe come chiamare mondezza un giardino d’asilo. Cristo, ma come sembravano convinti, quelli che ti dicevano morto. Le regole del tuo gioco prevedevano che tutti, sulla scena, recitassero la loro parte di persone convinte di averti perduto per sempre.
Anche i giornali scrivono che sei morto, ma i giornali ( noi lo sappiamo, vero, Francesco?) scrivono quello che qualcuno gli ordina di scrivere: e tu sei stato il Murdoch della cronaca cittadina, hai giocosamente manipolato la stampa locale. Hanno cercato di convincermi che tu eri morto come le mille persone che muoiono il sabato notte; ma io so che tu non frequenti discoteche, tu suoni il sassofono in giro per mezza Italia, tu la notte giri per lavoro di artista e non per sballarti.
Si sono inventati, perché tu hai voluto che lo inventassero, che sei morto in un incidente stradale; ma a me non me la danno a bere. Ne hai avuti tanti, di incidenti, e non ti sei mai fatto nulla di grave. Perché dovrei credere che stavolta ti sei fatto tanto male da addirittura morirne?
Ieri ho sentito il suono del tuo sassofono, tra le pareti della mia casa: e so che non era il cd che ci avevi regalato, a produrre quel suono. Eri tu. E sei tu che suoni anche adesso, mentre scrivo queste note per far capire che si tratta di un gioco. Tu, io lo so bene, sei spericolato ed audace ai limiti dell’incoscienza; come quella volta che mi sfuggisti di mano e sbattesti la testa contro una colonna del portico di Sant’Andrea; ed io ti piangevo già morto, e sbiancavo; ma tu ti rialzasti con un sorriso, anche se avevi il volto tuo di fanciullo coperto di sangue. E quando venne tua madre, lei sorrise del mio spavento, ed ordinò per me un cognac da Montanucci; mentre il tuo viso, lavato dal sangue, era di nuovo il tuo viso con quella strana espressione tra il serio e l’allegro che è il segno dell’ironia. Anche allora volesti giocare un gioco, magari crudele, ma riscattato dal tuo sorriso di dopo.
Tu sei una persona stupenda, leggera come una piuma e profonda come un fiume di acqua pulita; hai soltanto questa tua voglia di scherzare, magari anche in maniera dura. Ed ora il tuo gioco comincia ad essere lungo, troppo lungo; voglio ricordarti, Francesco quasi mio figlio, che è bello il gioco che dura poco.
E sto qui ad aspettare che tu ritorni a casa; io e Maria abbiamo preparato per te un assolo di sassofono al Boccone del Prete; so che sarai preciso e puntuale come sempre, tu che sei sempre professionale anche nello scherzo.
Oggi, o al massimo domani, ti stancherai di questo gioco; e ritornerai a suonare il tuo sassofono con la tua timidezza anche spavalda.
Facciamo così, Francesco: tu torni entro questa settimana a suonare il sax in qualche locale, magari in qualche piazza. E tutti capiranno quello che io e te sappiamo; che non sei morto. Non sei morto, vero, Francesco?