UNA CITTÀ ANGOSCIATA: SOSTA LIBERA O VIE PULITE?
Caro Leoni,
a leggere i nostri giornali online di qualche giorno fa sembrerebbe che per gli orvietani del centro storico la domanda estiva più angosciante sia perché alle sei e quindici una pattuglia di vigili si sia messa a fare multe a raffica alla auto in sosta vietata. Forse il comandante si era svegliato presto arrabbiato per qualcosa che era andata storta la sera prima? Forse il sindaco aveva passato la notte insonne e aveva buttato giù dal letto i poveri vigili costringendoli a fare quel che mai avrebbero voluto? Forse qualcuno l’aveva fatta storta ai padroni del caffè? O semplicemente in questa città sregolamentata ci si è finalmente decisi a far rispettare le minime regole? Lei come la vede?
Alfredo T.
Caro Alfredo, qualcuno ha detto che le regole sono fatte per gli uomini e non gli uomini per le regole. Io condivido. Perciò le regole devono essere applicate con saggezza e senso di giustizia. Per esempio, mi fa rivoltare lo stomaco il fatto che si cestinino le contravvenzioni degli amici, come il fatto che si colpiscano i forestieri con maggiore severità e come il fatto che si facciano dei blitz e poi tutto torni come prima. Il modo giusto per far rispettare le regole del traffico è il controllo sistematico. Vi dovrebbero essere dei vigili in continuo movimento addetti a rilevare tutte le irregolarità. Non solo quelle del traffico, ma anche quelle del commercio, delle occupazioni di suolo pubblico, dei lavori edilizi e dei difetti di manutenzione delle strade e degli altri impianti pubblici. Un buca stradale non tempestivamente riparata è spesso più pericolosa di un’automobile in divieto di sosta. I vigili avrebbero così anche la possibilità di ascoltare le segnalazioni dei cittadini. Un controllo del genere, fatto seriamente e sistematicamente, non è costoso perché promuove la disciplina dei cittadini e quindi riduce le esigenze del controllo. Ma c’è di più. Il controllo può essere in gran parte svolto anche da personale non abilitato ad elevare contravvenzioni; ma incaricato di girare, prendere nota, riferire, chiamare i vigili in caso di seria necessità, applicare sui tergicristalli i cosiddetti biglietti di cortesia dove c’è scritto: “Gentile Signore/a, la sua auto è posteggiata irregolarmente. La invito a rispettare i divieti. Ho annotato la sua targa e, se l’infrazione si ripeterà, chiederò l’intervento di un vigile urbano.” Queste cose le ho sempre predicate scontrandomi con l’opportunismo, la pigrizia e l’ottusità.
VIA LE CABINE TELEFONICHE O MEGLIO SOSTITUIRLE CON ALTRE MIGLIORI?
Caro Leoni,
le dico sinceramente che la recente nota diffusa da M5s sull’incombente dismissione delle cabine telefoniche nel centro storico non mi sembra una sciocchezzuola. Magari non tutte le motivazioni sono condivisibili, come quella che lega la questione all’essere Orvieto capofila e sede di CittàSlow International, ma a mio parere la sostanza c’è, perché un servizio vecchio deve essere sostituito da un servizio nuovo e migliore e non da nessun servizio. E poi la sottolineatura che non si vede anche in questo caso una politica adeguata ad una città turistica non è polemica spicciola. L’unico rilievo che mi sento di fare è che le cabine esistenti sono un’offesa estetica. Allora magari sostituiamole con altre più belle ed efficienti. Lei che ne dice?
Alessandra G.
Cara Alessandra, le confesso che le cabine telefoniche, con la loro sporcizia, la untuosità delle cornette e i segni vandalici, non mi sono mai state simpatiche. Un po’ come le latrine non custodite. Preferisco gli internet point, i cybercafé e gli internetcafé, che offrono vari servizi, compreso il collegamento telefonico.
SI PUÒ DIRE MALE DI RENZI? SI’!
Caro Barbabella,
sono convinto che Silvio Berlusconi “scese” in politica per salvare la sue aziende (chi non ama le proprie aziende?), ma credo che intendesse salvarle anche ammodernando l’Italia, se non altro per passare alla storia come uno statista di successo. Di fronte alla difficoltà di varare riforme incisive, Berlusconi ha sempre tirato in ballo la farraginosità del procedimento legislativo previsto dalla costituzione: il cosiddetto bipolarismo perfetto o paritario o simmetrico. Questa è anche la convinzione di Matteo Renzi, che si è gettato a testa bassa contro il Senato. Chi lo contesta è perché pensa che abbia torto o perché teme più della morte il successo di Renzi?
Valerio G.
Penso sia difficile per tutti capire che cosa vuole chi contesta il disegno istituzionale di Renzi, anche perché i contestatori sono diversi e le contestazioni sono multiple e variabili. A dire il vero è anche difficile capire quale sia questo disegno, ammesso che ce ne sia uno al di là della pura ambizione del comando. Sa che le dico? Questa storia che le mancate riforme e la difficoltà di governare sono sempre colpa di qualcun altro è tipicamente italiana, ha attraversato le più diverse stagioni politiche e quasi sempre ha nascosto debolezze proprie. Berlusconi aveva ben 100 deputati in più delle minoranze eppure le riforme non le ha fatte, anzi, quando le ha fatte, spesso sono state riforme pro domo sua, o no? E Renzi non ha forse un partito e un parlamento e una stampa ubbidienti ai suoi desideri seppure siano variabili a seconda dei sondaggi? Eppure stenta a fare le riforme che con frequenza assillante solennemente promette. Non le viene in mente che siano riforme che riformano poco o nulla e che però limitano passo dopo passo gli spazi di democrazia? La riforma delle province è stata una riforma o una confusione? La minacciata riforma del Senato al di fuori di un disegno istituzionale generale la dobbiamo considerare davvero una riforma o non piuttosto la semplice dimostrazione di voler eliminare quello che lui considera un intralcio al governare alla svelta? Le riforme vere sono frutto di lungimiranza. Ma le sembra che quando Renzi riesce a fare le riforme dimostri lungimiranza? Pensi alla cosiddetta “Buona scuola”: le sembra una riforma? Certo, meglio del conservatorismo di chi concepisce la scuola come luogo di istruzione impiegatizia, ma lontananza siderale dai migliori modelli di scuola che ci propongono l’Europa e il mondo (ad esempio, dove sono la flessibilità e l’opzionalità dei curricoli, l’autonomia con responsabilità di direzione, la carriera con merito certificato, il controllo di qualità?). Pensi soprattutto alla riforma elettorale. Lui l’ha pensata per vincere le elezioni sulla base del risultato delle europee ed ha stabilito che prende tutto chi al primo turno arriva al 40%, oppure si va al ballottaggio. Ma il suo consenso è oggi in discesa libera, per cui, ammesso che duri, se si andrà al voto nelle condizioni attuali il furbo fiorentino consegnerà il potere ai suoi avversari (ammesso che il centrodestra non ritrovi lo smalto di un tempo, qualcuno pensa che Grillo e Salvini non possono allearsi al secondo turno? In Italia, e nelle condizioni di oggi, tutto è possibile). Vede come sono poco semplici le questioni? Se lei pensa che in politica ci sia invidia, pensa sicuramente giusto. Anzi, l’invidia spesso acceca al punto che per non far vincere qualcuno o per impedirne comunque il successo, soprattutto se amico o della stessa parte politica, c’è chi si impegna a morte. Si guardi intorno, e senza grandi sforzi ne troverà qualcuno che conosce anche lei. Però, nel caso degli oppositori di Renzi, credo che si tratti, più che di invidia, di disistima e di autentica sfiducia. Mi consenta, per chiudere, una domanda: ma si può “dir male” di Renzi?
TRAFFICO NEL CENTRO STORICO. CI SI DEVE RASSEGNARE AL NON GOVERNO?
Caro Barbabella,
con la disciplina del traffico sulla rupe di Orvieto l’amministrazione comunale annaspa alla ricerca di una soluzione che possa scontentare il meno possibile. Ma tre quarti della popolazione comunale è insediata fuori della rupe e a questi cittadini interessa poco degli spettacoli, delle kermesse musicali e dei convegni con cui si cerca di animare il centro storico. Costoro vogliono mezzi pubblici di trasporto efficienti e soprattutto parcheggi comodi, abbondanti e gratuiti per salire a Orvieto a lavorare, fare acquisti, andare a spasso e divertirsi. I commercianti del centro storico sono interessati sia al flusso turistico che a quello degli orvietani che risiedono fuori della rupe. Ma è difficile conciliare la botte piena con la moglie ubriaca. Per questo anche i commercianti del centro storico annaspano. Non è meglio rassegnarsi al fatto che non c’è soluzione e abituarsi alla scontentezza di tutti? So che a lei la serenità della rassegnazione non piace.
Pietro di Sferracavallo
Bah, che la rassegnazione si accompagni a serenità sempre e comunque mi genera più di un dubbio. Può accadere a chi si è rassegnato perché le ha provate quasi tutte, ne è rimasto deluso eh ha in conseguenza di ciò deciso di ritrarsi avendo la coscienza tranquilla. Ma non può accadere a chi la rassegnazione ce l’ha per indifferenza, per non aver nemmeno fatto un tentativo in qualche ambiente o settore pubblico. In ogni caso, è vero, questo è un atteggiamento che non mi appartiene. O meglio, ancora non mi appartiene. Dubito anche che in generale, come detto, sia da considerare un atteggiamento utile a qualcosa o qualcuno. Non lo è certo per le cose governabili, e il traffico, come tutte le altre cose della città, è governabile. Il fatto che non ci si riesca oggi non riguarda la cosa in sé, ma solo chi non riesce a trattarla adeguatamente. Quando si sceglie si scontenta sempre qualcuno, ma se la scelta è lungimirante, in un tempo congruo se ne vedranno i benefici, e si potrà sostenere che si è governato bene, con buona pace degli oppositori di ogni cambiamento. Il punto però è che bisogna avere in testa ben chiaro dove si vuole andare, sia con il traffico che in generale con la città. L’amministrazione è in grado di fare scelte con questo presupposto? Il traffico è materia delicata, che scatena discussioni appassionate perché tocca interessi vivi e abitudini vitali, e genera perciò negli amministratori ora la tentazione ideologica di imporre soluzioni scarsamente meditate e ora quella di non far niente per non disturbare. Errori entrambi. Come ho detto altre volte, le città sono organismi viventi e anche una modifica parziale contribuisce a modificare tutto. Peraltro Orvieto è insieme rupe ed extrarupe, e non si può evitare di avere una visione complessiva che dà senso a ogni singolo provvedimento. Allora finalmente ci si decida a fare quello che la realtà richiede.
Riflessioni a margine dell’Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti (1980) di Italo Calvino
di Franco Raimondo Barbabella
Considerando i tempi che viviamo, non possiamo evitare di occuparci di onestà nell’esercizio delle funzioni pubbliche, tante e tali sono in questo ambito le manifestazioni di disonestà, materiale e intellettuale. E tuttavia provo una certa ritrosia a farlo, perché questo è un tema che si presta troppo alla retorica moralistica, predicozzi della domenica che salvano la coscienza e però lasciano il tempo che trovano. Dunque perché mi sono deciso? Ma perché mi sono imbattuto nell’Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti, il racconto che Italo Calvino pubblicò su la Repubblica il 15 marzo 1980 e che, inserito nel terzo volume dei suoi Romanzi e racconti, è stato riproposto alla lettura da Micromega il 15 ottobre 2012. Un pezzo troppo interessante e calzante per essere trattato solo come esempio di bravura letteraria e non invece anche come occasione di riflessione di fronte ad una realtà drammaticamente cruda come quella che da tempo abbiamo squadernata davanti.
Andando al succo, Calvino narrava di “un paese che si reggeva sull’illecito”, non certo perché mancassero le leggi o perché i principi del sistema istituzionale non fossero sufficientemente condivisi, ma perché era articolato in una miriade di centri di potere che avevano bisogno di essere continuamente foraggiati e ciò non poteva che avvenire con mezzi illeciti, “cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti”. Il fatto fondamentale però era questo: “Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale”. Tutte le forme d’illecito si saldavano tra loro a formare “un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza”, per cui gli abitanti di quel paese avrebbero potuto unanimemente considerarsi felici “non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti”.
Chi erano costoro? “Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone”. Non speravano in una società migliore “perché sapevano che il peggio è sempre più probabile”, ma non si sentivano affatto votati all’estinzione.
Per una ragione che Calvino genialmente descrive così: “la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società, ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé (almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità, di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è”.
Se si pensa che questo pezzo è stato scritto 25 anni fa, c’è di che riflettere innanzitutto sul fatto che in tutto questo tempo le cose sono addirittura peggiorate e che i giudizi sulle cause e sulle responsabilità del degrado della vita pubblica troppo spesso e per gran parte sono stati superficiali e interessati. Da allora sono cambiate molte cose (per cui la descrizione di Calvino non potrebbe essere utile se presa alla lettera e non come pungente e drammatica suggestione), ma la disonestà, morale e intellettuale, si è diffusa e radicata ancor più, al punto che il rispetto delle regole (almeno quelle essenziali, compreso il buonsenso) è diffusamente considerato un optional e l’idea stessa di regola ha perso il connotato di norma che vale per tutti finché è in vigore e spesso è diventata lo strumento di cui si dota una parte per sopravanzare sulle altre.
Certo, l’onestà è habitus individuale costituito da principi morali che guidano i comportamenti effettuali, in qualsiasi ambito in cui si svolge la vita delle persone in carne ed ossa. Di sicuro perciò lo è anche in ambito pubblico, restando comunque il portato di una formazione e di una storia che si costruisce come persona. Qui però lo è, o lo dovrebbe essere, come requisito indiscutibile, anzi, più precisamente come presupposto, e il fatto che oggi abbia spazio chi ne fa invece un’arma di successo politico ci dice quanto siamo ridotti male. Non solo perché il problema c’è, ma anche perché viene proficuamente cavalcato, in alcuni casi appunto più per ottenere successo che per cambiare le cose, e in altri casi per dare in pasto all’opinione pubblica qualche frutto strafatto per lasciare intatta la produzione di potere. È infatti proprio questo cavalcare il problema che ci fa dimenticare che se l’onestà non si accompagna a competenza e capacità, e insieme a selezione e controllo, la disonestà è destinata non solo a sopravvivere in modo fisiologico, ma a improntare di sé ancor più la società, cosicché un eventuale nuovo Italo Calvino dovrà di nuovo parlare di “società dei corrotti”.
Con questo insisto su un mio vecchio pallino: si potrà parlare di cambiamento, non di facciata, ma vero, in direzione di una società più onesta, in quanto più giusta, più sicura, più libera, solo se vi sarà una selezione delle classi dirigenti trasparente e non improvvisata, se alle piccole caste e agli specialisti di manovrette si preferiranno le persone dotate di pensiero libero, volontà di servizio, capacità realizzativa. Prima o poi anche i più distratti e i più “furbi” se ne dovranno accorgere? Forse si, perché la fonte si sta prosciugando ed è in procinto di buttar fuori solo melma. È ottimismo, e ottimismo giustificato? No, direi consapevolezza necessariamente fiduciosa, tuttavia certo non priva di dubbio.