TERNI PIANGE, MA ORVIETO RIDE?
Caro Leoni,
l’ultimo libro-inchiesta di Claudio Lattanzi è “Chi comanda Terni. I compagni, i tedeschi, i perugini. Potere e affari in una città a sovranità limitata”. Una città, Terni, dice Lattanzi, governata da poteri economici esterni e assoggetta politicamente, tramite il pd, agli interessi perugini. E noi che cosa possiamo dire di Orvieto: una città economicamente e politicamente libera perché con un’economia sempre più debole e una politica sempre più inconsistente?
Alessandro G.
Orvieto, caro Alessandro (l’ho detto e scritto mille volte) ha ciò che si merita. Nel senso che non ha saputo mettere a frutto tutte le opportunità che la storia, la geografia e l’evoluzione delle comunicazioni le hanno offerto. L’industria è scarsa, il turismo è insoddisfacente e, dell’agricoltura, non c’è da essere entusiasti, come lo possono essere in Toscana del pecorino di Pienza e del Brunello di Montalcino. Vi sono anche le colpe degli altri, ma ti ricordo il detto della gallina pizzicata: tutte le altre galline le danno addosso. Ma niente è definitivamente perduto se si passa dalla lagna a un maggiore impegno nel lavoro intellettuale, materiale, imprenditoriale e politico. Un buon metodo per lavorare di più è chiacchierare meno.
UN TRAFFICO DI DOLOR DE PANZA!
Caro Leoni,
lei che di queste cose s’intende, mi sa dire che c’entra Andrea Scopetti con il suo PD che s’intromette nelle delicate questioni del traffico, come se l’amministrazione non ci capisse niente? Ma secondo lei, è l’amministrazione che non ci capisce o è Scopetti che vuole mettere in difficoltà l’amministrazione disorientando tutti con le sue iniziative?
Giuseppe P.
Caro Giuseppe, secondo me sono vere tutte e due le ipotesi che hai espresso: è una rivalità tra teste confuse. Ma non disprezziamoli troppo. Orvieto è ricca di soldi privati con cui giocano i banchieri e di case vuote dove ballano i sorci. Ma è povera d’idee.
PER FAVORE, LASCIATECI ALMENO LA SPERANZA DEL CONIGLIO A PORCHETTA!
Caro Barbabella,
dicono che l’Italia sia la nazione d’Europa dove si sta più diffondendo il vegetarianesimo (o vegetarianismo? o vegetarismo?). Le motivazioni dei vegetariani – religiose, igieniche, economiche, ecologiche – sono varie e tutte legittime. Ma, per gli Italiani, come per tutti i popoli, il cibo non è solo la soddisfazione di una esigenza di sopravvivenza, come per gli animali, ma è un fatto culturale. La nostra cultura si sta trasformando? Dobbiamo sbrigarci a mangiare gli ultimi conigli a porchetta?
Piero P.
Mi permetta di ricordarle, caro Piero, che “le parole sono importanti”. Vegetarianismo e vegetarismo sono espressioni corrette, vegetarianesimo no. Infatti, vegetarianismo (pratiche alimentari che escludono l’uso delle carni) deriva da vegetariano, adattamento dell’inglese vegetarian, derivazione dal francese vegetable, la cui radice è il latino vegetus, che significa sano e vigoroso; vegetarismo è semplicemente l’abbreviazione di vegetarianismo. Invece vegetarianesimo è la resa linguistica iperbolica dell’orientamento alimentare vegetariano, si potrebbe dire il suo timbro religioso. In tutti e tre i casi però la parola termina in “ismo”, il che indica comunque una qualche parentela con il mondo delle ideologie, che sono esasperazioni di orientamenti e comportamenti umani tendenzialmente escludenti altri orientamenti e comportamenti. Questo minitrattato linguistico mi è sembrato necessario per evidenziare che il vegetarismo, con la sua punta estrema del veganismo, appartiene a pieno titolo alle tendenze sempre più estremizzate del salutismo contemporaneo, a sua volta espressione di fenomeni sociali e culturali molto complessi, che però fanno riferimento alle insicurezze tipiche della contemporaneità. In un clima come questo, tutto diventa possibile: da una parte la scelta di diete alimentari razionali, frutto di ricerca e di indicazioni per un adattamento volontario alle caratteristiche individuali; dall’altra scelte estremizzate che superano i gusti e le preferenze libere e diventano stili di vita esclusivi. Naturale che il secondo orientamento tenda all’assoluto e diventi spesso tentativo di imporre agli altri le scelte proprie in nome di una presunta superiorità etica o anche di un mondo da salvare. Ma il mondo non ha mai sopportato le braghe. Perciò un buon coniglio a porchetta continueremo a trovarlo sempre da qualche parte, magari in un angolo dell’Australia.
CADE PALMIRA. ED ECCO LA METAFORA DELL’IPOCRISIA OCCIDENTALE
Caro Barbabella,
il sito archeologico di Palmira è in mano ai terroristi dell’Isis. Faranno ciò che fecero i romani a Orvieto nel 264 a.C.? La storia, in un modo o nell’altro, si ripete? Ma questa volta ci resteranno le fotografie, e gli storici avranno poco da elucubrare, e gli archeologi avranno poco da scavare. Magra consolazione?
Vanessa S.
È difficile immaginare che i miliziani dell’Isis fermino la loro furia distruttiva restando ammirati di fronte ai resti del sito archeologico di Palmira, una delle testimonianze più belle e importanti della civiltà romana. Loro sgozzano, decapitano, depredano, fanno stragi, costringono alla fuga migliaia e migliaia di esseri umani. Perché dunque dovrebbero rispettare la storia? È solo la nostra ipocrisia che ci fa pensare il contrario. C’è una bella differenza con la vicenda volsiniese del 264 a.C. Allora il console Marco Fulvio Flacco fu inviato a mettere fine ad una situazione di scontro, quando aperto e quando latente, con Roma da parte di una delle più potenti e floride città etrusche, in un periodo in cui Roma tendeva ad espandersi secondo una logica che in parte era di guerra preventiva e in parte di vero e proprio dominio. Vicende dure, anche brutali, ma pur sempre dotate di logica e interpretabili in modo da individuare possibili correttivi futuri. Probabilmente in Volsinii la classe aristocratica fedele a Roma era stata sostituita dalla classe servile, e Roma volle risolvere il conflitto alla radice. I metodi erano spicci anche allora: le città ribelli venivano distrutte e gli abitanti deportati. Era successo secoli prima agli abitanti dell’isola di Melo da parte degli ateniesi, che pure furono i primi ad inventare una forma seppure limitata di democrazia. Brutale, ma nulla di assoluto. Invece dopo si. La storia presenta analogie, ma non si ripete. Normalmente va peggio: il Novecento ne è un limpido esempio. Vogliamo citare il genocidio degli armeni? O l’olocausto? O le stragi dei Khmer rossi? In tutti i casi i popoli autodefinentisi civili o di ciò che era accaduto si sono accorti dopo, o hanno lasciato che il dramma si consumasse fino in fondo senza muovere un dito, o perché se ne uscisse sono passati per guerre lunghe e sanguinose. Che faranno oggi? Lasceranno che succeda quel che deve succedere in ossequio al principio della non interferenza (con lamento della cattiveria altrui) o a quello dell’interferenza mascherata da buone intenzioni umanitarie? Daranno ragione ai Turchi di Erdoğan, che vogliono la fine del regime siriano del macellaio Bashar al-Assad per ragioni non proprio nobili, o appoggeranno proprio il macellaio Bashar al-Assad dopo averlo combattuto si e no, un po’ direttamente e un po’ indirettamente, per fermare finalmente gli assassini dell’Isis in base al classico criterio che “i nemici dei miei nemici sono miei amici”? Non sappiamo, ma Tito Livio ci ricorda che “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur” (mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata). Mi chiedo: per chi sono importanti queste riflessioni? Non possiamo più aspettarci nemmeno che qualche bandiera arcobaleno venga issata su qualche balcone, non dovendosi protestare contro l’America di Bush. Tanto meno possiamo immaginare che da un Consiglio comunale possa partire una iniziativa di sensibilizzazione in base all’idea che comunque ciò che sta accedendo ci riguarda, toh! se non altro perché provoca drammatici flussi di migranti. Nel frattempo perciò assistiamo attoniti a stragi di esseri umani e di segni di civiltà. Si, il fatto che gli storici faticheranno di meno a reperire le fonti documentarie è proprio una magra consolazione.
La vicenda delle pensioni: il diritto stracciato
di Franco Raimondo Barbabella
La ragion di stato, nata nell’antichità ma teorizzata in epoca moderna contestualmente all’affermazione del potere statale contro il particolarismo feudale, non ammette sofisticate considerazioni. In questo senso il ministro Padoan, quando afferma che la Consulta, prima di pronunciarsi sulla questione del diritto dei pensionati alla rivalutazione delle loro pensioni bloccate dal governo Monti, avrebbe dovuto considerare le conseguenze della propria decisione sull’equilibrio del bilancio dello Stato, è perfettamente coerente con la ragion di stato nella sua forma più grezza.
Ma ignora il diritto, appunto per ignoranza, o forse per ormai normale protervia. Sto parlando di una questione che riguarda milioni e milioni di cittadini. Perché ignora il diritto? Anzitutto perché c’è una sentenza della Consulta, il cui compito è di stabilire se una legge rispetta il dettato costituzionale o meno. La sentenza ha stabilito che il prelievo forzoso di denaro dalle tasche dei pensionati è ingiusto, e di conseguenza ciò che è stato tolto va restituito. Che cosa teorizzano invece il ministro Padoan e una schiera di privilegiati e garantiti: universitari, consulenti strapagati, giornalisti di sistema, ecc.? Ecco qua, come sintetizza bene Vittorio Emiliani: 1) le sentenze della Consulta devono tener conto degli equilibri di bilancio e quindi dei vincoli europei; 2) le sentenze della Consulta si possono rispettare a metà, per un terzo, magari per un decimo, come nel caso di questi “gettoni” chiaramente pre-elettorali.
Ma scusate, allora se ne deduce che il diritto è cosa del tutto aleatoria e soggettiva; lo Stato può fare quello che vuole; la ragion di stato non ha limiti. E questo, nella patria del diritto. L’obiezione che, siccome l’equilibrio di bilancio è diventato un obbligo costituzionale, il diritto delle persone costituzionalmente garantito deve essere ad esso subordinato, è una vera scemenza: dell’equilibrio di bilancio si devono occupare governo e parlamento, che hanno tutta la potestà d’azione, con appunto il solo limite del rispetto della Costituzione. E allora, dove sta scritto che sono i pensionati, e più in generali i ceti a reddito fisso, che si devono far carico dell’equilibrio di bilancio dello stato?
Si dirà che ci sono pensionati e pensionati, ed è vero. Ma coloro che sono pensionati hanno ottenuto la loro pensione in base alle norme in vigore, e nessuno di loro si è fatto le norme per conto proprio. Le leggi erano sbagliate? Bisognava correggerle. Sono ancora sbagliate, pur essendo state ormai più volte cambiate? Si cambino ancora. Ma delle certezze devono esistere; non si può far violenza al diritto. Bastava dire: il prelievo forzoso è stato ingiusto e va restituito; ora non ci sono i soldi per tutti, perciò li diamo in parte a coloro che hanno di meno; agli altri li daremo in tre, sei, nove anni, o quello che è necessario. Questo sarebbe stato un discorso da governanti responsabili.
Invece si sentono ormai solo discorsi contrari al diritto, e così il moralismo prevale perfino sulla logica più elementare. Chi ha più del necessario è un ladro? No, se lo ha guadagnato in base alle leggi. Ma vogliamo stare su questo piano, che comunque con il diritto non c’entra nulla? Bene, allora si sappia che, a parte alcune migliaia di pensioni d’oro (che andrebbero impedite per il futuro e tassate in modo significativo nel presente), le altre, anche quelle che vanno oltre le sei volte il minimo, sono ormai diventate ammortizzatori sociali, perché nella maggior parte dei casi servono per far fronte a problemi dei figli, degli anziani, e del mantenimento in vita della proprietà ricevuta in eredità, sempre più faticoso in ragione di una tassazione asfissiante.
Il prelievo dalle tasche dei ceti a reddito fisso, e segnatamente dei pensionati, è cosa facile. Per i pensionati comunque è facilissimo, perché non possono nemmeno scioperare. E i sindacati si guardano bene dal protestare. Ma a chi conviene l’impoverimento dei ceti medi che così si ottiene con una progressività impressionante? A chi conviene lanciare messaggi di insicurezza sul futuro? A chi conviene far capire che impegnarsi per migliorare non ha senso, perché più fai e più sarai colpito? Infine, a chi conviene accettare l’idea che governare è sparare a parole contro le caste e poi nei fatti prendere i soldi dove è facile prenderli con il prelievo alla fonte?
Domande che in questa fase storica forse non avranno risposta. Ma tutti sappiano che non sono prive di senso.