di Mario Tiberi
Nel mentre, a lenti passi, di ritorno da Piazza della Repubblica riguadagnavo la prospicienza delle rassicuranti mura domestiche, mi sono tornate alla memoria le parole, credo soavi, di un carme intenso e passionale, e tenuto sinora sotto chiave, dedicato al soggetto che è croce e delizia dei miei pensieri e delle mie ansie: il popolo.
Non il popolo come massa o folla indeterminata e indistinta, ma come entità specifica, dotato di dignitosa personalità morale e giuridica, ricondotto ad unità nella dimensione ideale di un mondo, che mi è proprio, cosparso di astralità ed astrazioni e al quale mi è naturale rivolgermi con un confidenziale ed intimo Tu.
“Ho cantato per te in quella notte di luna, a piedi nudi nell’erba e al delizioso suono di melodiosa sinfonia.
I capelli al vento, le labbra appena socchiuse, la carezza delle note sulla pelle, il cuore e la mente pronti per te.
Ho cantato per i tuoi occhi attraenti, per quei tuoi occhi differenti che mi catturano l’anima, l’occhio verde pieno di malinconia, l’altro di nocciola dorata ricolmo di mistero e di aporia.
Ho cantato per lo stupore sul tuo viso, per il sorriso caldo sulle tue labbra, per il tuo respiro affannoso, per quel gesto vago di afferrarmi, subito trattenuto dall’incanto e lasciato lì a mezz’aria.
Ho cantato in quella notte perfetta, la catenina d’oro con Lui Redentore al collo, le spalle nude, la musica lenta, la tua voglia addosso a riempirmi di brividi.
Ho poi ballato a te vicino, sempre più vicino, mentre sussurravi il mio nome e mi attiravi con lo sguardo fino a caderti tra le braccia e sentire finalmente il tuo cuore.
Ho cantato quella notte sotto la luna bianca al carezzevole vibrare di violini ed arpe, libero ma prigioniero di Te!.”
Libero, ma prigioniero di te: popolo uno, sacro, sovrano e inviolabile ma anche, amandoti, popolo che non sei ancora capace di gettare il seme della rivoluzione politica e culturale di cui avresti necessità; rivoluzione non del ferro di spada insanguinata, e invece pacifica e democratica perché combattuta con le armi della parola inchiodante e della dialettica convincente.
Il popolo delle italiche terre forse non si cimenterà mai con la rivoluzione; concretamente non è nelle sue corde: è infatti per svariati versi un popolo pavido, che si atteggia a modo “di coniglio e di pecora”, che vivacchia di furberie e miseri privilegi, che è per sua natura conservatore e poco propenso a vivere virilmente la comunità, che può stare anche male ma che trova, più faticoso e pericoloso, lottare per una società più giusta e più umana.
Preferisce delegare, a tutti i livelli amministrativi, ogni potere al governante di turno, anche se costui è uno scimunito, bugiardo, ipocrita, presuntuoso e arrogante, incivile e irrispettoso della legalità e delle istituzioni che pur rappresenta e anche se, in fin dei conti, non migliorerà affatto le condizioni di vita del popolo stesso se non, sventura su sventura, le peggiorerà.
Stai attento però, popolo: o imparerai presto, meglio subito, ad esercitare una stretta ed avveduta vigilanza sulle questioni che ti riguardano direttamente o gli oligarchi senza controlli, sorridendo sotto i baffi e strofinandosi le mani, continueranno imperterriti a decidere alle tue spalle, a tua insaputa, sulla tua pelle anche contro i tuoi interessi e le tue volontà.
E’ di tua spettanza il consecutivo categorico imperativo: non dovrai mai più permettere che la dabbenaggine prevalga sull’intelligenza, la pavidità sul coraggio, la pigrizia sull’efficienza dinamica e propulsiva.
“Odi et Amo”, popolo diletto: di più non so dirti!