di Danilo Stefani
Quando un uomo si uccide, vorremmo saperne il perché. Ma lo chiediamo per il desiderio di sapere o per placare la nostra angoscia scatenata dal dramma dell’evento? Forse entrambi. Il desiderio di sapere è naturale curiosità. Ma le nostre sensazioni di testimoni turbati cosa c’entrano con il voler sapere? C’entrano perché ci sentiamo anche vittime di ciò che non si può interpretare. In realtà le sole vittime, quelle vere, sono le famiglie e gli amici più cari, che vivono un dolore immenso a cui può dare sollievo, forse, solo una grande fede. Noi – tutti gli altri – possiamo trovare sollievo anche nella fede verso l’introspezione, con l’animo sensibile di chi s’interroga sul perché la nostra società non tollera mai ciò che non riesce a comprendere.
L’Italia dei suicidi è sempre più una morta di paura, sì, perché con l’abitudine si muore, si resta passivi, e infine indifferenti. E allora il “gesto estremo” confuso e ingarbugliato nei nostri “perché” fugaci, si perde nella sabbia fatta dai pensieri consueti. E’ quella sabbia tracciata dai solchi delle domande senza risposta, ma che il vento non trovando ostacoli copre; è quello stesso vento a spingerci con poca fatica all’indietro, verso l’asfalto. Una giungla d’asfalto percorsa a trecento all’ora, verso un panorama che sfreccia senza essere visto. E come il Linus dei fumetti, rieccoci a pensare: “Io amo l’umanità; è la gente che non sopporto!”. Tutti – e ognuno da solo – sotto coperta.