di Mario Tiberi
Con l’approssimarsi della Primavera, nel suo più calzante significato di inizio di un periodo di tempo ardente e rilucente, si risveglia ogni forma di vita così come la si conosce. Anche quella degli umani non si sottrae a tale legge di natura ed, anzi, ne acquisisce una più elevata intensità di impulso e di vigore, soprattutto se rapportata al ristagno generato dal gelo delle coscienze. E dal letargo e dal buio della mente, la scrittura e la lettura proiettano luce vivida laddove vi era annebbiamento ed oscurità.
Le attività umane, tutte le attività umane, da che il mondo è mondo, sono sempre state oggetto di apprezzamenti, talora sinceri e talora interessati, come anche di critiche pur feroci quanto più velate e, ad onor del vero, lo sono tuttora nonostante si tenda a canalizzarle in alvei di benpensante perbenismo.
Alla luce della premessa asserzione, non mi ha mai meravigliato la circostanza di venir qualche volta redarguito a motivo di una eccessiva verborrea che, a detta di taluni, spesso e volentieri rischia di sconfinare nel terreno di una facondia alluvionale, a volte forse sì irritante, a volte però licenziata con superficiale pressappochismo ed eccessiva frettolosità.
Ultimamente, una gentile lettrice ha onestamente ammesso di non aver tempo da perdere per dedicarsi alla scrittura di eloquenti discorsi il cui, unico fine, parrebbe essere quello di mettersi in mostra; un cortese lettore, al contrario e senza mezzi termini, ha sentenziato che è convenientemente preferibile astenersi dall’addentrarsi nel pensiero altrui poiché, conoscere, comporta fatica e scatena il sobbalzare dal comodo dell’ignoranza, miserevole e censurabile, ma certamente utilitaria e producente sul piano della logica opportunista delle “tre scimmiette”.
Comprendo meglio le ragioni della lettrice dettate, probabilmente, dagli affanni convulsivi a cui si è costretti dal logorio della vita moderna; molto meno mi è dato di accettare quelle esposte dall’incauto lettore. Ad entrambi come a tutti, e non ho difficoltà a tenerla celata, vorrei però rivolgere una sinottica riflessione sulla vitale importanza del segnare in forma grafica e verbale i propri stati d’animo, la propria visione di ciò che ci circonda, le proprie concezioni e convinzioni esistenziali.
E’ il lasciare traccia di noi. Di quello che, da inappagati, siamo stati e di quello che avremmo voluto essere per soddisfare e per soddisfarci: vale a dire, la ricerca infinita del finito e viceversa, accompagnata dalla coscienza fiduciosa che, dalla caducità del provvisorio e del transeunte, si possa aprire la porta escatologica della speranza che non ci troviamo ad esistere solo per una fortuita casualità.
Scrivere, consegnare cioè al fluire degli eventi l’istantanea dei nostri istanti, ma anche dei nostri istinti, riveste incommensurabile efficacia nella terapia di due tra i principali malanni dell’animo umano: il sentimento della solitudine e della dispersione e, poi, la sensazione spesso palpabile della inutilità del nostro trascorrere e del nostro agire.
Quante volte, anche nell’arco della stessa giornata, proviamo l’ambascia dello smarrimento di fronte alle soverchianti forze cosmiche e ci sentiamo soli, sperduti, schiacciati dal peso insostenibile delle vicende umane le quali, una volta che ci sembrano raggiunte e dominate, è proprio quello il momento in cui ci sfuggono nuovamente di mano provocandoci sconforto, amarezze e delusioni.
E’ la medesima solitudine di chi ha ingaggiato, nella politica e nel sociale, un’appassionata tenzone per il trionfo dell’equità e della severità morale e si trova, invece, obbligato a dover ripiegare a cagione della incongruità delle sue pur valide e profuse energie, perché incompreso e, a volte, anche criminalizzato.
A ciò si accompagna, inevitabilmente, il devastante senso dell’avvertita inutilità delle proprie azioni, ancorché degne e nobili, in quanto le mete prefissate evaporano e si rendono evanescenti a fronte del cozzare contro i muri dell’omertà mistificatrice e dell’apatia utilitaristica.
Sopravviene, allora, un desiderio smodato e irrefrenabile di affidare a “carta, penna e calamaio” il compito di essenzializzarsi come fosse uno scrigno magico dove poter custodire gelosamente le confessioni più intime e segrete, confidate prima a se stessi, e per poi, se del caso, divulgarle a beneficio delle intere “civitates”. A quel desiderio smodato e irrefrenabile si affianca ineludibilmente la bramosia, certo più misurata e contenuta, di coloro che hanno imparato a sapersi saziare di inesplorati orizzonti di conoscenza che, “ope propria”, solo la lettura può coadiuvare a scoprire.
Se così è e così sarà, lo scrivere e il leggere non assolveranno solamente al modesto ruolo di generico sostegno al vivere, bensì a quello di gran lunga più edificante di ausilio eccellente al “Primum Vivere”.