BASTA CON LA CITTÀ IN MUTANDE!
Caro Barbabella,
La sostituzione della storica drogheria degli Svizzeri con una lingerie fece dire a qualche spiritoso che Orvieto stava diventando la città delle mutande. Però, obiettivamente, l’esposizione sfacciata in vetrina di slip, reggiseni e sottovesti di tutti i colori e di tutte le fogge è molto più stimolante, per gli ormoni maschili e la vanità femminile, di cioccolatini e caramelle. Perché non incoraggiare questa tendenza?
Fabrizio D.G.
Caro Fabrizio, non riuscirà a farmi cadere nella sua provocazione. Capisco, lei vorrebbe farmi andare contro l’idea di una città vocata alla purezza dei sentimenti, e dunque alla castità, perché tutti possano giungere senza macchia all’appuntamento ultimo e pronti a superare il severo esame del giudice supremo. No, non ci casco. Anzi, la invito a riflettere: dove andremo a finire con questo culto del corpo? E poi si rende conto del pericolo che corriamo se verranno esposte le mutande di Dolce&Gabbana? Sa che le dico?, mi meraviglio che una città così vocata alla dimensione spirituale della vita non abbia ancora fatto manifestazioni di protesta contro questa corruzione dei costumi dovuta alle culture secolarizzate di un montante laicismo. Tiè!
EVVIVA L’ARTIGIANO-ARTISTA!
Caro Barbabella,
la Confederazione Nazionale dell’Artigianato, nella scelta della persona da premiare quest’anno col pialletto d’oro, non è riuscita a trovare un artigiano e ha ripiegato su un artista come Alberto Bellini. Questo ottimo ceramista visionario non viene da una scuola (che non c’è più) e non fa parte di una tradizione. Onore a Bellini; ma non sarebbe bene che la scuola pubblica facesse qualcosa per stimolare la manualità degli alunni e incoraggiare la passione per la costruzione di oggetti che rechino il segno della mano e non il calco della macchina?
Valeria V.
Cara Valeria, non sono affatto d’accordo che Alberto Bellini non ha a che fare con l’essere artigiano, anche se non è sbagliato definirlo artista. Piuttosto credo che sia giusto considerarlo una di quelle figure speciali che possono esistere solo in città come la nostra, condensando in sé la sapienza di una cultura artigiana storicamente stratificata che sa avvalersi però di una forte propensione alla ricerca e alla creatività. Lui non fa ceramiche ma terrecotte, che avvicinano di più alla natura e alle forme originarie della vita, come ti indicano i suoi castelli, gli gnomi e le maschere. Sono creazioni che forse vogliono essere artifizi con cui fermare il tempo, frutto insieme di cultura raffinata, capacità inventiva e sapiente uso delle mani. Niente di più giusto dunque che consegnare a lui il pialletto d’oro di quest’anno. Perché poi non vedere in questo anche una intelligente indicazione per il futuro? Ritengo un errore la tendenza attuale a confondere la produzione frutto della creatività e della sapienza manuale dell’artigiano con quella delle macchine che operano con sistemi computerizzati. Che si debbano utilizzare le opportunità offerte dalle tecnologie digitali non ci possono esser dubbi (ma per favore, non ci buttate là le cose senza poi ragionare in termini di sistema, senza preoccuparci ad esempio di un’organizzazione vera della formazione legata al lavoro e senza creare un clima che favorisca la creatività su basi culturali solide) ma che tutta l’attenzione debba andare oggi a questo settore dimenticando proprio la sapienza e le opportunità dell’artigianato-artista è solo frutto di miopia e di ignoranza. Io ho sempre ritenuto un errore la trasformazione dell’istituto d’arte in liceo artistico. Oggi però, se non si può tornare a quel modello, si potrebbe pensare, se non altro come esperimento, di trasformare alcune botteghe artigiane in scuole di formazione di artigianato superiore, legandole a determinati circuiti turistici con siti web dedicati. In ogni caso io credo al futuro dell’artigiano-artista: oggi è come un lumicino; domani spero diventi una luce.
ANNUNCIAZIONE, ANNUNCIAZIONE: È ARRIVATO IL DIOGENE!
Caro Leoni,
nei giorni scorsi ho letto un interessante articolo del nostro simpatico concittadino Gianluca Foresi intitolato “L’eterno ritorno a sinistra”. Il nostro, animato da irrefrenabile istinto riformatore, dice che se si vuole rifare la sinistra bisogna anzitutto azzerare ciò che essa è stata e ciò che oggi è (boh!), per poi metterci dentro tutto quello che ci piace (boh!), tranne un paio di cosette. Non contento ancora, aggiunge che bisogna capire chi è l’uomo, forse per rifarlo (boh!). Posso capire Diogene, che cercava l’uomo vivendo al lume di candela in una botte, ma qui, per le vie e le botteghe di Orvieto e sulle stiasce del Duomo, mi sembra un po’ troppo e un po’ fuori luogo, non crede? E poi, perché preoccuparsi di azzerare la sinistra visto che ci riesce benissimo da sola? Non è che per caso stiamo sbroccando?! Mi tranquillizzi, mi dica per favore che a destra non c’è nessuno che sta tentando la stessa cosa.
Tommaso A.
Caro Tommaso, lasci stare Gianluca, che è molto bravo come attore immaginifico e quindi lo si può perdonare se sbrocca nella filosofia politica. Certamente, per uno che si sente “de sinistra”, deve essere arduo sopportare in silenzio la sciattezza di quella che ancora si autodefinisce sinistra in Orvieto. Ma se tale decadenza tormenta le anime sensibili come quella di Gianluca, a destra la situazione è diversa. Non perché non vi siano a destra anime sensibili, ma perché la destra non si è mai illusa di possedere la ricetta per rifare l’uomo e il mondo.
UN PAESE (ORVIETO) A MISURA DI ANZIANO. MA LO SAPEVATE?
Caro Leoni,
confesso che avevo deciso di andarmene da Orvieto. Essendo un po’ in là con gli anni, pensavo di passare quelli che mi restano (forse) in un luogo dove gli anziani godono di rispetto, sono ritenuti utili e, al bisogno, hanno i servizi a misura loro. Ma ora l’Espresso mi spiazza, perché pare che viviamo in una delle città più a misura d’anziano d’Italia: si possono imparare le tecnologie, c’è solo da scegliere come divertirsi, i giovani sono lì pronti a coccolarti. Forse non parto più, lei che dice? Oddio, all’ospedale non è che tutto fila liscio, per spostarti se hai difficoltà meglio che hai un amico, le case di riposo te sdirenano, se hai una pensione bassa e paghi l’affitto e non ti aiutano i figli sono cavoli amari, ci sono le badanti (quando badano a te) ma anche quelle … Però almeno si imparano cose e ci si diverte. Io non lo sapevo. Lei lo sapeva?
Anselmo U.
Caro Anselmo, io la penso in modo esattamente contrario al giornalista dell’Espresso. Perciò continui a cercare un posto più adatto di Orvieto agli anziani e me lo faccia sapere. Vengo anch’io! Ci faremo compagnia e, prima che mi si spàppoli il cervello, le racconterò due cosette che adesso le accenno. Anni fa, col prof. Barbabella e altri amici, ipotizzammo di metter su una piccola casa di riposo nella quale ricoverarci in stato di efficienza fisica e mentale. Gli amici che, a mano a mano, sarebbero diventati disabili, sarebbero stati assistiti dai più fortunati e da nuovi ospiti. La cosa non si fece perché le nostre famiglie la interpretarono (giustamente) come carenza di fiducia nei loro confronti. Da molti anni condivido con altri la campagna per realizzare in piazza del Duomo, nel complesso del vecchio ospedale, una grande struttura socio-assistenziale per cittadini in condizione di debolezza per motivi di salute e/o di età e/o di povertà. La cosa temo che non si farà per la generale riluttanza a guardare con lucidità il viale del tramonto.
L’anima medievale di Orvieto
di Pier Luigi Leoni
Chiunque fosse obbligato a scegliere l’opera da salvare fra il Duomo, il Pozzo di San Patrizio, il Teatro Mancinelli e il Nuovo Ospedale non avrebbe dubbi. Eppure il Duomo è espressione del deprecato Medio Evo, mentre il Pozzo è un capolavoro del genio rinascimentale, il Teatro è la maggiore realizzazione ottocentesca, un monumento al glorioso melodramma italiano, e l’Ospedale è la più grande opera pubblica orvietana del Novecento, dedicata alla più vitale delle esigenze assistenziali. Questa considerazione dovrebbe far riflettere sulla leggenda nera del Medio Evo. Si dovrebbe prendere atto che l’ambiente tenebroso e sanguinolento del film di Jean-Jacques Annaud, “Il nome della rosa”, è un Medio Evo di cartapesta, mentre quello vero è rappresentato nella Piazza dei Miracoli di Pisa. L’anima vera di Orvieto la si percepisce nel Duomo, dove lo slancio vitale orientato dalla fede e sostenuto da raffinate istituzioni politiche popolari, si è espresso in modo clamoroso. Questa non è enfatica declamazione, ma certezza che chiunque ha occhi per vedere deve ammettere. L’amore per il Duomo significa che l’anima medievale di Orvieto non si è annichilita, anche se è schiacciata nei reconditi dell’inconscio collettivo dai secoli in cui il popolo orvietano ha annaspato per finire col produrre, tutt’al più, un brutto ospedale. È vero che gli orvietani non si ammazzano come allora, ma non perché non esistano gli odi e le fazioni, bensì perché non credono alla vita eterna (o almeno ne dubitano sempre di più) e stanno attaccati, tremebondi, a questa vita che sguscia via. Certamente non hanno onorato l’anima medievale quei consiglieri comunali che hanno respinto la proposta di un forum civico per fare il punto sulla situazione socio- assistenziale e sulla ridestinazione di importanti complessi immobiliari pubblici. È stato un comportamento miope e fazioso, sospettoso della partecipazione popolare, indegno di una città che nei secoli in cui edificava il Duomo riuniva il popolo ogni volta che c’era da prendere una decisione importante. Due citazioni bibliche possono aiutarli e aiutarci: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” e “Dio non vuole che il peccatore muoia, ma che si converta e viva”. Speriamo bene!