di Mario Tiberi
Che il pensiero tenga in vita e possa concedere un senso compiuto alla vita stessa, è concetto ormai ampiamente riconosciuto; ma che il pensiero, se non suffragato da ricorrenti indagini anche spietate su se stessi e sulle realtà circostanti e congiungenti, possa essere la tomba dell’intelletto è altrettanto vero e inconfutabile.
Il pensiero dona la vita, ma può anche uccidere.
Uccide quando per pigrizia accidiosa non si ha la ferrea volontà di andare oltre la soglia minimale della superficialità, quando per vile codardia si abdica al coraggio della risolutezza e della coerenza, quando per ignobile opportunismo si sacrificano sull’altare dell’ambivalenza le ragioni dell’integrità e dell’identità personali.
Di quanto precede, il principale responsabile va individuato nel camaleontismo trasformistico che, alla stregua dei tentacoli di una piovra, sta avviluppando e soffocando, inquinandole, le più elementari relazioni sociali già rese fragili dal progressivo venir meno di una consapevole coscienza comunitaria.
Di fronte all’incalzare delle lusinghe e delle seduzioni derivanti da un massiccio quanto mistificatorio bombardamento mediatico, l’unica arma di difesa sembra illusoriamente consistere nel trincerarsi dietro una maschera cangiante, a seconda del comodo momentaneo, pur di non essere per quello che realmente si è.
Nel perdere o nello smarrire la propria identità, nel mercificarla per prebende inappaganti e affatto dignitose, si finisce col portare all’ammasso il bene forse più prezioso di cui disponiamo: l’integrità fisica, morale e spirituale dell’essere Umanità.
E’ necessario, prima che sia troppo tardi, arrestarsi sulla china per soffermare e volgere uno sguardo attento a ciò che mal funziona e che ci rende sofferenti, ricorrendo a quanta energia residuale è in noi per un cambio secco di mentalità che sia di pregio e di sostanza. Fermarsi dunque e, al contempo, intraprendere un seppur impegnativo viaggio a ritroso fino a riscoprire le originali origini dell’essere umano primigenio, senza con ciò voler pervenire a quello primitivo.
Nell’oggi, l’abitante terrestre per eccellenza, sommerso e spesso travolto dalla modernità di tecnologie sempre più avanzate, tende a barattare la sua umanità con effimere conquiste meccaniche e, così operando, pur inconsapevolmente imbarbarisce e si brutalizza.
Sta accadendo nella vita civile quello che i grammatici definiscono, nella scienza filologica, il morbo della “coniunctivitis professoria”, vale a dire l’alterazione arbitraria del linguaggio in funzione di un interessato caos comunicativo il quale, nefastamente, è in procinto di produrre maggiori danni di quelli causati dal tracoma nelle più sudice caverne della preistoria.
La “Teoria dell’Originismo”, così come ritengo di poterla formulare, presuppone il taglio delle forzature ideologiche e il ripristino di rapporti umani, semplici e diretti: tagliare le forzature ideologiche vuol significare l’abbattimento di pregiudizi e preclusioni che impediscono il ristabilimento di relazioni interpersonali capaci di ripartire dallo zero, cioè dalle origini.
Un solo confronto sarebbe interessante ed utile, come prologo ad un avvincente dibattito sul dove incentrare il nostro sforzo intellettuale per la ripartenza: quello tra il positivismo, ateo e materialista, e l’idealismo, fideistico e spiritualista, nell’ottica di una metafisica neotomista che sappia ridisegnare una moderna “Gerusalemme” quale visione di pace e riconciliazione.
Altro non vedo e non mi sento di vedere: la “tabula rasa” del marcio, del corrotto, dell’infetto non avrebbe senso se non si avesse chiara la percezione che, per ricominciare, abbisognano originalità e originarietà.
A chiunque ne sia incuriosito ed avvinto, cedo volentieri la parola!