di Roberto Minervini
Una volta, nel Medioevo, quando gli invasori si avvicinavano ai nostri borghi arroccati sulle colline c’era sempre qualcuno che lanciava l’allarme. Erano grida, suoni di campane, fuochi accesi, insomma si cercava di avvisare tutti del pericolo imminente e, soprattutto, di prepararsi tutti assieme alla difesa.
Oggi i fuochi non si accendono più, si scrive sui giornali, si parla nelle tv, s’inviano mail e si organizzano convegni ed assemblee. Nella società della comunicazione dovrebbe essere più facile far sapere le cose, però, stranamente, non sempre lo è. Accade infatti, ed è abbastanza straordinario, che di notizie importanti quale ad esempio l’installazione di un impianto a biomasse, per produrre energia e calore, non se ne sappia nulla, anche in un piccolo comune, se non quando la “pratica” amministrativa è abbastanza avanti. Insomma meno efficacemente di quando, in ben altri tempi, gli invasori medievali apparivano nella valle e si apprestavano ad assalire il povero borgo arroccato.
Il paragone è imperfetto e semplicistico e, continuando, in questa guisa si potrebbe addirittura immaginare, mancando ogni avvertimento, che i “difensori” siano restii a dare l’allarme, naturalmente la cosa forse era possibile allora, ma oggi sicuramente non è così. Chi infatti può avere interesse a fare installare impianti, perfettamente a norma secondo le specifiche del nostro Paese, ma che non generano occupazione, talvolta creano inquinamento, spesso necessitano di movimento di mezzi (e quindi anche di strade adeguate) per gli approvvigionamenti del materiale da bruciare (biomasse) o per le manutenzioni (eolico), deprezzano gli immobili che hanno la sventura di trovarsi nelle loro vicinanze e contribuiscono, talvolta con impensabili interventi di disboscamento per procurare biomassa, a cambiare l’ambiente ed il paesaggio del comprensorio?
Naturalmente, sapendo anche che la potenza energetica installata nel nostro Paese è poco meno del doppio di quella che di fatto ci serve tutti i giorni e che siamo in Italia già al 40% di energia elettrica da rinnovabili, ci si chiede perché nei nostri piccoli comuni dovremmo subire la presenza di questi “attrezzi” che nulla ci danno e molto ci tolgono: un’altra svendita di territorio?
Non so perché, ma questa ultima costosa (per tutti noi) attività produttiva degli impianti per le rinnovabili me ne fa venire in mente un’altra e cioè quella della svendita dei territori per farne cave o lottizzazioni o aree industriali. Chi pensa che sia il calcio lo sport nazionale italiano si sbaglia di grosso: lo sport nazionale più praticato (per fortuna oggi meno grazie alla crisi) è trasformare i terreni agricoli in terreni edificabili o per usi industriali. E’ così che ci siamo trasformati nel paese al mondo con il più alto numero di metri cubi di cemento per abitante. Ma la cosa non è finita (la “fissa” del mattone è dura a morire), anche l’EXPO di Milano, tutto incentrato sulla “Madre Terra”, si è trasformato in un’altra straordinaria occasione di cementificazione e di consumo di suolo, agricolo naturalmente, espropriato agli agricoltori stessi, come ci hanno mostrato in alcuni servizi televisivi.
Il fatto è che “intermediare” la vendita di territorio è molto più semplice, se le cittadinanze lo consentono con la loro disattenzione, che doversi fare interpreti di iniziative di sviluppo comprensoriale rischiando politicamente in prima persona. Ci troviamo di fatto nella “terra di mezzo” dove la politica non ha ancora preso coscienza che questa crisi ha fatto maturare gli Italiani trasformandoli rapidamente da sonnacchiosi e riluttanti elettori in pretenziosi (ed anche un po’ incazzati) cittadini che non si accontentano più di farsi governare da politici di cui si fidano sempre meno. Questo delicato passaggio verso migliori forme di gestione politica forse talvolta comporterà che si butti via il bambino con l’acqua sporca, ma la teoria del pendolo è sempre stata nella logica delle cose umane.
Allo stato attuale quindi di queste nostre umane cose il problema dell’arrivo di nuovi “saraceni” alle porte appare veramente incomprensibile, ma vale la pena di cominciare dall’inizio. Un primo aspetto curioso è costituito dalle aree industriali, se ci fate caso c’è sempre una o addirittura più aree industriali in ogni comune, anche se non arriva nemmeno a mille abitanti: una forma di megalomania di paese o un piccolo business locale? Evidentemente trasformare le aree agricole in “qualcos’altro” è un richiamo irresistibile a cui seguono le realizzazioni di capannoni-investimento, presto abbandonati o grandemente esorbitanti le necessità del loro utilizzo. Questa tendenza ha quindi comportato non solo la presenza di brutte aree fantasma in prossimità dei nostri borghi, ma anche che vi siano le condizioni urbanistiche per installarvi praticamente qualsiasi cosa, spesso alle porte dell’abitato. Probabilmente in una più sana impostazione e per un maggiore ordine urbanistico, sarebbe stato logico individuare una sola area industriale all’eventuale servizio di più comuni, in una zona appositamente studiata e lontana da case e centri abitati. Questa banale programmazione, praticata regolarmente in tutti i Paesi rispettosi del proprio territorio e della propria identità, evidentemente contrastava con altre logiche più gradite a sindaci e rispettive giunte.
Altro problema sono le energie rinnovabili che, nonostante i tagli ai “grassi” aiuti previsti per queste iniziative, continuano ad essere incentivate in maniera esagerata soprattutto in alcuni settori, anche se già ci costano circa 13 miliardi (nel 2014) l’anno pagati da tutti noi in bolletta. Sono quindi questi incentivi a spingere gli imprenditori ad aggredire i nostri territori lasciando poco o niente, ma solo prendendo, e ci si chiede come mai arrivino proprio qui dove abbiamo tanto da difendere come cultura, agricoltura e paesaggio con tanti altri posti in Italia, purtroppo già compromessi, a cui chiedere licenze.
La cosa ha origine già da qualche tempo, tanto che a Castel Giorgio si arrivò, circa tre anni fa e per il fotovoltaico, a richieste di impianti che sfioravano i 150 ha di buona terra agricola dell’Alfina. Per merito di molte persone di buona volontà, organizzati in gruppi di protesta ed in comitati, quella iattura fu evitata, l’allora sindaco di Castel Giorgio si dimise (un “dinosauro in attesa del suo meteorite” scrissi a quel tempo) e quindi la gente di buona volontà ed i comitati si poterono concentrare per sventare quella che appare oggi come una ben più grave minaccia ai nostri territori: gli impianti geotermici binari. Impianti che rischiano, con le loro trivellazioni profonde e gli emungimenti di reflui tossici per far girare turbine, di creare inquinamento delle nostre falde idriche (l’acqua che ci beviamo tutti i giorni) e sconquassi alla stessa stabilità geologica (terremoti!) nel comprensorio. Questa ultima partita non è purtroppo ancora conclusa, il rischio “impianti binari” (“pilota” tra l’altro) ancora incombe sulle nostre teste, anche se ormai si è costituito un forte fronte contrario che agisce in tutta Italia dopo le alzate di scudi di molti “campagnoli” dell’Altopiano dell’Alfina. Campagnoli sì, in grado però di riconoscere la differenza fra “tenore di vita” e “qualità della vita”.
A questo punto verrebbe quindi da chiedersi come mai periodicamente si concentrano nel nostro territorio “mucchi” di richieste per fare impianti di questo o di quel tipo? La spiegazione potrebbe essere che da noi si sono verificate delle “condizioni” che possono favorire queste richieste. Nel caso della geotermia è chiaro che ci devono essere delle condizioni naturali (il calore geotermico, vedi ancora Castel Giorgio) per giustificare un impianto, nel caso degli impianti eolici (vedi Monte Peglia) una modesta quantità di vento per fare girare le pale (anche se il vento non è sufficiente per sostenere la redditività dell’impianto quello che manca lo sostiene il “vento” del contributo pubblico.), mentre per fotovoltaico e biomasse, che sono meno dipendenti dalle specificità territoriali, tali impianti potrebbero sorgere praticamente ovunque. In questi ultimi casi quindi gli unici eventuali ostacoli sarebbero di tipo “locale” e cioè impedimenti amministrativi, secondo le legislazioni correnti, destinazioni territoriali secondo un modello di sviluppo condiviso con i residenti e conclamate reazioni negative da parte dei residenti che spingono, di solito con l’appoggio dei sindaci, gli imprenditori a cambiare zona perché ovviamente non sono favorevoli a realizzare impianti invisi alla maggior parte dei locali.
Nel caso del Comprensorio Orvietano in buona sostanza in questi ultimi dieci anni vuoi per le cave, vuoi per le tentate nuove lottizzazioni (in alcuni casi bloccate da interventi della Regione), vuoi per le installazioni di diverse tipologie di energie rinnovabili e vuoi per la crescita della discarica bisogna riconoscere che c’è un diffuso intervento imprenditoriale che rischia di snaturare profondamente le caratteristiche, culturali, produttive, tradizionali e paesaggistiche del Comprensorio Orvietano. Per dirla in due parole sono iniziative che potrebbero distruggere quel patrimonio di armonia e di bellezza che ancora ci contraddistingue. Interventi che, dispiace dirlo, molto spesso vede coinvolte le amministrazioni di una stessa parte politica.
C’è da augurarsi quindi che non si ricada, anche in periodi come questi di forte mobilitazione popolare, nella banalità di parlare dei soliti “Signori del NO”, si sottovaluterebbe il problema e si perderebbe tempo prezioso per un immediato ravvedimento. Si cominci piuttosto e finalmente a puntare su modelli di sviluppo tesi a potenziare l’agroindustria ed il turismo, sempre invocati a parole, ma veri strumenti di produzione compatibili con la cultura e le vocazioni di questo territorio. C’è da augurarsi anche che i sindaci recuperino rapidamente quel ruolo di interpreti delle istanze delle popolazioni che amministrano e con cui si deve presto e bene dialogare per pianificare il futuro.
La cosa però si complica quando i sindaci fanno “i pesci in barile”, quando cioè cominciano a fare discorsi del tipo “vorrei, ma non posso”, “ormai l’iter è troppo avanti”, “le regole non lo consentono”, ecc. Ma quali regole? Come se non si sapesse che molto spesso dietro questi progetti ci sono i “venditori di licenze”, intermediari di solito dotati di conoscenze territoriali e politiche grazie alle quali agevolano i rapporti tra gli imprenditori e la politica locale. Che c’è di male? Assolutamente nulla, in tutto il mondo gli affari si fanno soprattutto grazie alle lobby ed in Italia forse ancora di più. Ma si può ignorare il parere contrario delle popolazioni residenti? Naturalmente no! E’ superfluo ricordare che il sindaco ed i consiglieri eletti in giunta hanno un ruolo di rappresentatività e garanzia degli elettori, un mandato revocabile quando viene meno la fiducia degli elettori (il meteorite) ed a cui è sconsigliabile, quando c’è una dichiarata presa di posizione delle comunità amministrate, andare in direzioni diverse o, peggio ancora, rifugiarsi dietro puerili foglie di fico. E’ anche inutile ricordare che i sindaci non sono “mandarini” inviati a soddisfare fedelmente le aspettative di oligarchie politiche ed economiche, non più, lo è stato e lo è ancora in tante parti d’Italia, specie laddove, stretti tra mafie e malapolitica, le cittadinanze non riescono ancora ad appropriarsi dei propri destini. Nel comprensorio orvietano però non è così e non lo è più soprattutto da quando, quasi dieci anni fa, l’ex sindaco Mocio a Benano, durante una rovente assemblea cittadina, pronunciò le storica frase “la cava non si fa”. E tutti in quella parte di mondo saranno sempre grati all’uomo, forse più che al sindaco, per il coraggio e la coerenza per quella promessa che ha poi mantenuto e che di cui oggi non si possono che apprezzare le risultanze sulla qualità della vita dei residenti.
L’impressione che si ha purtroppo è che in molti casi si voglia invece far correre le cose per poi dichiararsi impossibilitati a recuperarle, ed appare strano che non si riesca a dissuadere gli imprenditori al momento in cui si presentano in comune a verificare “che aria tira” relativamente alle loro installazioni. Gli imprenditori, è logico pensarlo, si muovono laddove trovano minori resistenze e le prime resistenze, se volute dai residenti, devono venire proprio dai sindaci, tecnicamente e culturalmente preparati per capire cosa è idoneo alla popolazione ed ai territori che amministrano su delega della cittadinanza che li ha eletti. Non sono buoni sindaci quelli che ancora credono di potersi muovere in assoluta autonomia dimenticando il loro mandato. Non sono buoni sindaci quelli che deludono la gran parte delle cittadinanze che amministrano e che, non rispettosi della regole della democrazia, nonostante tutto mantengono il loro incarico. Non sono buoni sindaci quelli che, contravvenendo ad un preciso mandato della UE, si limitano ad affiggere sull’Albo Pretorio del proprio comune le richieste delle installazioni di impianti che potrebbero nuocere alla salute, agli interessi ed alla qualità della vita dei loro amministrati, senza convocare per tempo apposite assemblee cittadine dove illustrare ed eventualmente condividere i progetti. Non sono buoni sindaci quelli che aderiscono solo formalmente ad impegni già in corso come i Contratti di Fiume e le Aree Interne dove negli opuscoli informativi del Ministero dello Sviluppo Economico in sintesi si definiscono “nemici delle Aree Interne” quegli attori pubblici e privati che hanno estratto risorse nei territori con interventi quali: discariche, cave, impianti per l’energia eolica o l’utilizzazione di biomasse e altro ancora”.
Dovrebbe bastare questa adesione ai citati programmi in atto a scongiurare l’arrivo dei “saraceni” nei nostri territori, ma forse ci sono sindaci che non hanno ancora capito che hanno aderito a progetti di “programmazione territoriale” governati da un Comune capofila (Orvieto) e dalle assemblee cittadine. Probabilmente, almeno per alcuni di loro, “fare sistema, sviluppo condiviso e democrazia” sono concetti poco praticabili.
Non si tratta di essere pochi “Signori del NO” il mondo è in continuo movimento nel tentativo tecnologico di sopravvivere a noi stessi, nessuno sano di mente vorrebbe combattere le soluzioni energetiche alternative al consumo dei combustibili fossili, ma non si può pensare sempre e solo al proprio immediato tornaconto. Altre sfide ci impongono di smetterla di continuare a guardare sempre e solo al presente, come fanno gli altri animali con cui condividiamo il pianeta. Le economie si devono sommare e non devono compromettere le già esistenti a favore dell’ultimo arrivato. I modelli di sviluppo basati sulla ”massima concorrenza possibile” stanno mostrando i loro gravi limiti svuotando il pianeta e spremendo l’umanità, ma nuove concezioni dell’economia stanno già spostando gli assi produttivi e le linee di sviluppo verso “le massime sinergie produttive possibili” come ad una nova speranza di sopravvivenza a lungo termine. Ormai gli “elettori” di tutto il mondo democratico, grazie anche ad Internet, oggi madre di tutte le rivoluzioni, cominciano a pretendere amministratori capaci di visioni di ampio respiro temporale, chi si sente in grado di proporle si faccia avanti a farsi sostenere da chi lo ha scelto, è tempo finalmente di ricominciare a fare politica.