di Gianni Marchesini
Il Mercato di Piazza del Popolo è il tempio “profano” della comunità orvietana.
Un grande palcoscenico dove attori e spettatori si alternano nel ruolo di interpreti in quell’arte teatralmente sublime che è l’arte del fare la spesa.
Tra i suoi banchi, sotto i teli che si srotolano dai furgoni, all’ombra dei giorni di sole o al riparo dalla pioggia degli ampi o sconnessi, più piccoli ombrelli o davanti alle incerte bancarelle degli ortolani, per oltre un secolo ha pulsato il battito vitale della città.
Osserva il mercato, rivolgi lo sguardo sui volti, i gesti, i sorrisi, gli incontri, i saluti, i prodotti raccolti sui banchi o sui mucchi prosperosi della verdura o sui cumuli polposi della frutta, sul ciarlare sordo delle donne che, folte e accanite, capano gli indumenti intorno al banco dell’abbigliamento usato, sarai rapito da uno spettacolo esuberante e armonioso nel quale la danza dei gesti, delle movenze, dei passi è tratta da una coreografia che racconta migliaia di repliche dove soltanto gli attori sono mutati permanendo intatti la scenografia, le parti, i testi e la regia della storia.
Chiacchiere al Mercato, termina un ciclo di quattro libri con i quali ho voluto raccontare, usando per lo più il dialogo tra i personaggi, il mutare del dialetto orvietano percorrendo un tratto di storia del costume della città partendo dagli anni del dopoguerra per giungere, con quest’ultimo libro, ai giorni nostri.
I poderi a conduzione mezzadrile, lo spopolarsi delle campagne con l’avvento della società industrializzata e del welfare sociale, nel dialogo di due anziane ex pastorelle con i due: ”Sta finestra do’ da” e “Mo ‘n giorno che è” e la fine degli anni ottanta con: “Su e giù dall’ospedale” quando nessuno di noi era un nativo digitale, il cellulare era un desiderio ancora non realizzato e i ragazzi amoreggiavano con il telefono a gettone.
Il Mercato è l’Incontro, un piccolo mondo globale ante litteram dove i ceti, le appartenenze, le ideologie si sciolgono tra le foglie della verza, l’oro del castello delle arance, l’odore invadente e perverso dei polli arrostiti o dentro i buzzichi delle alici salate o fra i pezzi di baccalà steso a panciolle sulla cassa di cartone dove giacche, gonne, pantaloni ballano il tip tap appesi a penzoloni sotto il sole o ondeggiano agli schiaffi delle raffiche del vento.
Il mercato è il luogo della scelta, il tastare, la verifica del fresco, il mi piace acerbo oppure maturo, il dialogo, la contrattazione, è il rapporto confidenziale del “Te ce regalo ‘n limone” o del “Ve ce metto ‘n po’ d’odori” o “damme qué pé la mi’ fija che lei pé magnà è spiccicata a la su’ mamma”.
Ed è il luogo delle chiacchiere, della misticanza sociale, dove tutti parlano con tutti, dove lo spazio aperto smorza e addolcisce la forza delle parole e l’aria non è condizionata e non ammiccano sugli scaffali le carote cellofanate e dove davvero puoi ben dire: il mercato sono io.
E se c’è un luogo dove il dialetto non è soltanto parlato ma è anche abitato, quello è il Mercato.
Una capiente padella dove friggono vocaboli, modi di dire, proverbi, episodi, il luogo nel quale si finisce per arrivare da tutti i paesi del suburbio con il carrello della spesa pieno e desideroso di liberarsi dalle chiacchiere.
Oggi, nel 2014, dopo le mutazioni linguistiche degli sms, delle chat dei Social Network, insieme ai mutamenti globali che attraversano le generazioni, nonostante la struttura sia rimasta intatta, il dialetto orvietano si è diversificato subendo dei cambiamenti e segnando addirittura delle differenze tra persona e persona.
Ciò che non muta, invece, nel grande paiolo del Mercato, è il Mercato.
Restano ancora indelebili i tipi, i modi, i fruttaroli, gli ambulanti delle scarpe, dei tessuti, dell’abbigliamento, dell’intimo, dell’usato, quelli dei banconi del cacio sui baldacchini alti dietro la trincea delle forme del pecorino; non è cambiato chi misura, chi taglia, chi pesa con la bascola né coloro dai quali assaggi il prosciutto che fa “risuscità li morti” o il cacio stagionato che è “bòno da grattasse e anche pé magnà”.
Non mutano, sono sempre gli stessi perché del Mercato conservano lo spirito antico.
E immutabili restano le chiacchiere al Mercato, il salotto più comodo, ampio e arredato della città, un fornito bazar per lo scambio di squisite e ghiotte novità dove, la curiosità delle signore può apprendere che: “Quella s’è separata, o anche che: “La Pina ha comprato la casa pé la fija” oppure del ricovero del su’ marito, della malattia della su’ cognata, del viaggio di nozze de la figlia della su’ amica, del nuovo tatuaggio de lei, del telefonino perso de lui o di: “Quant’è stronzo, fija mia, ‘l marito de quella disgraziata!”o della parrucchiera che fa solo lo sciampo colorato o, infine, che: “Tra ‘na faccenna e ‘n’altra, signora mia, non c’è manco’l tempo da fa pio”.
I vari protagonisti di Chiacchiere al Mercato, parlano tutti un dialetto, quello orvietano le cui numerose varianti ho cercato di rendere coerenti con l’appartenenza, l’età cronologica, l’estrazione sociale e culturale dei personaggi.
Alcuni, come la serva scionchia della contessa, provengono da ricordi passati, vividi e amorosi di chi, come me, abita da una vita in via del Popolo.
Ma su l’umanità garrula e laboriosa che il giovedì e il sabato, all’alba, arriva sulla piazza nuda e costruisce in poco più di un’ora un piccolo quartiere per accogliere, servire la nostra comunità, il tempo non scorre poiché è la magia ancora viva e vitale del Mercato a renderla eterna.