“SOLUZIONE PETTINACCI”, UNA GENIALATA PER NON FAR CHIUDERE GLI UFFICI POSTALI DELLE FRAZIONI
Caro Leoni,
dica la verità, nemmeno lei, che pure ha capacità inventiva da vendere, ci avrebbe mai pensato se non lo avesse proposto il Presidente Angelo Pettinacci. Che cosa? Ma la soluzione per il problema della chiusura degli uffici postali delle frazioni. Dopo aver svelato (certo, svelato, perché mica lo sapevamo) che Poste Italiane è un’azienda falsamente privata che fa affari con i soldi dei contribuenti e che però, facendo business, dove non gli conviene chiude lo sportello fregandosene giustamente del servizio pubblico, espone la sua magica soluzione. Eccola: “Allora, a parer mio, cosa dovrebbe fare un’ Amministrazione e la politica. Lavorare con le Associazioni rappresentanti la società civile ed i cittadini per far crescere il tasso di bancarizzazione (in sintesi insegnare e far abituare i cittadini – in particolare la popolazione più matura – ad usare una carta bancomat/postamat, a canalizzare le proprie utenze, a canalizzare pensioni/stipendi). Con una popolazione nelle piccole frazioni più bancarizzata sarebbe più facile per le Amministrazioni e per la politica sollecitare banche e poste ad istallarvi dei bancomat evoluti. A quel punto il disagio riveniente dalla chiusura di Uffici Postali nelle piccole frazioni sarebbe ridotto al minimo ed il servizio ai cittadini comunque assicurato”. Io non so aggiungere un commento. E lei?
Giovanni G.
Angelo Pettinacci è persona competente in materia di servizi bancari e non dice cose banali. In questo caso, secondo me, si è fatto prendere un po’ la mano dalla propria competenza e non ha tenuto presente l’aspetto relazionale di ogni servizio, compresi quelli pubblici. La soppressione dell’ufficio postale in un piccolo centro abitato è paragonabile alla chiusura del bar. Si può fare il caffè in casa, con minor spesa e miglior risultato di quello che offre il piccolo bar; e non c’è niente venduto nel bar che non possa stare nel frigo e nella dispensa di casa. Ma se un centro abitato viene privato del bar e dell’ufficio postale diviene un posto meno adatto alla vita sociale. Il disagio più tremendo di cui soffrivano i contadini nelle case coloniche era la mancanza di un minimo di vita urbana. L’alfabetizzazione informatica, la diffusione della moneta elettronica e l’incremento degli acquisti on line sono cose positive e inevitabili, ma una cosa è interagire con una macchina, una cosa è interloquire per mezzo del telefono, e magari del videotelefono, altra cosa è interloquire con un essere umano che ti sta di fronte, chiedergli come sta la sua signora e come vanno i figli a scuola. Se fosse per me, affiderei agli uffici postali delle piccole frazioni anche i servizi demografici (anagrafe, stato civile, elettorale e statistico) che lo Stato ha tradizionalmente ammollato ai Comuni e che funzionano meglio nei piccoli centri. Non solo, ma incentiverei i bar dei piccoli centri pagando ai gestori un affitto per ospitare le riunioni dei comitati e delle associazioni locali.
MOSSA FINTA DEL COMUNE SUL TERZO CALANCO?
Caro Leoni,
pochi giorni fa si è letta la seguente notizia: “Terzo calanco, pronto il ricorso al Consiglio di Stato. L’Esecutivo comunale ha deliberato di proporre appello presso il Consiglio di Stato per la riforma della sentenza 25/2015 del Tar dell’Umbria pronunciata per la causa Sao S.p.A.” È la sentenza che dà ragione alla SAO per l’uso del terzo calanco, in base al fatto che di presenza di bosco non si può parlare come invece aveva sostenuto il Comune per giustificare il vincolo urbanistico. Mi permetta, io penso che il Comune faccia ricorso per salvare la faccia. Se volesse evitare l’uso del terzo calanco dovrebbe fare ben altro, cioè chiedere alla regione di cambiare Piano dei rifiuti. Ma lo farà? Lei che dice?
Adelmo F.
L’amministrazione comunale ha fatto bene a impugnare la sentenza. Non si sa mai. Ma affidarsi agli avvocati e confidare nei giudici porta sempre a notevoli spese, e spesso a cocenti delusioni. Se l’amore per il proprio territorio è sincero e supera simpatie più o meno interessate, ci si batte a oltranza sul piano politico. Del resto, sul piano politico, l’interlocutore-avversario è la regione dell’Umbria. Una regione che ha gli anni, se non i giorni, contati. Se abbiamo paura anche di un ammalato terminale siamo fritti.
UN ASSESSORATO JELLATO
Caro Barbabella,
altro casino per l’assessore orvietano Gnagnarini. Brucia ancora il ricordo della cartelle pazze della tassa sulla monnezza e arriva la vergogna delle cartelle sceme della tassa sull’occupazione di suolo pubblico. A me sembra che Gnagnarini non abbia alcuna colpa, se non quella di essersi fatto dare un assessorato disgraziato. Una sòla ordita dal sindaco? Sennò da chi?
Felice F.
Lei, caro il mio Felice, mi pare un poco cattivello: dica la verità, vuole seminare un po’ di zizzania tra il sindaco e il suo assessore, vero? Beh, comunque le dirò la mia. Io penso che non ci sia di mezzo nessuna sòla: quell’assessorato Gnagnarini lo ha tenacemente voluto e il sindaco glie lo ha tenacemente dato. Io credo che abbiano sbagliato entrambi e glie l’ho lealmente detto in tempi non sospetti. Beninteso, un errore politico. Gnagnarini era il naturale capogruppo della lista civica “Per andare avanti”, che, lo voglia o no in PD, è stata l’elemento determinante per la vittoria del centrosinistra avendo ottenuto un ragguardevole consenso sul punto cruciale del rinnovamento della politica municipale. Era dunque suo compito interpretare questo ruolo nella concreta prassi amministrativa e Gnagnarini avrebbe dovuto esserne il primo interprete. Ha fatto invece la scelta di entrare nell’esecutivo, e il sindaco lo ha assecondato, probabilmente in ossequio a patti preelettorali ma, credo, non rendendosi ben conto che questo avrebbe spostato la dialettica politica all’interno del PD, facendone così emergere platealmente i contrasti, che poi vengono regolarmente scaricati sull’Amministrazione. Le cartelle pazze sono frutto di altro, in cui c’entra anche la politica, ma solo in parte. Dunque il caro Massimo quel ruolo lo ha voluto. Non credo che il PD lo grazierà e prima o poi Germani sarà costretto a cedere. O magari no, perché vorrà dimostrare di essere più forte di Scopetti. Chissà, vedremo, ma ne dubito. L’unica cosa certa è che tutto questo non entusiasma nessuno e di sicuro non fa bene alla città.
IL VECCHIO OSPEDALE SI STA DISFACENDO. CHI PAGHERÀ?
Ogni giorno che passa, il degrado dell’ex ospedale ci costa centinaia di euro. Dovrò pagare la mia parte di cittadino per un importo equivalente a chi avrebbe dovuto evitare quel disastro e non l’ha fatto e a chi dovrebbe custodire con cura quell’edificio e non lo fa? Se ne parla e se ne scrive, ma perché la Corte dei Conti non interviene? Non è competente? Non è informata? È oberata di lavoro? Il danno per l’erario dipende solo dal destino cinico e baro?
Pippo B.
È vero, il degrado dell’ex ospedale lo paghiamo tutti, anche se non ce ne rendiamo ben conto. Ma solo quello dell’ex ospedale? E l’ex Piave dove la mettiamo? In realtà si paga doppio: il degrado e il mancato uso. Di più: degrado vuol dire diminuzione di valore dell’immobile e diminuzione di valore è premessa di disegni di speculazione. Entrambi li paga inevitabilmente la collettività. Lei, caro Pippo, si meraviglia che del degrado dell’ex ospedale non si occupi la Corte dei Conti. Scusi, ma perché non si meraviglia anche del fatto che la Corte dei Conti a suo tempo, dopo aver riconosciuto la correttezza dell’operato di RPO arrivando anche a condannare il Comune a sostenere le spese processuali, non si è occupata di chi oggettivamente ha la responsabilità di aver impedito il riuso dell’ex Piave e perciò dell’inevitabile degrado anche di questo importante immobile? Vede, caro Pippo, tutto torna. La politica sembra speso solo un mondo di quaquaraquà, mentre nei fatti somiglia molto di più ad una scienza agronomica: se non pulisci il campo per tempo dalle erbacce, ti ritrovi che scompare anche il raccolto. E allora non ti lamentare, perché la colpa è solo tua.
La politica del pisciacane
di Pier Luigi Leoni
«Un po’ per celia, un po’ per non morire», mi autodefinisco gastrosofo. Vale a dire che mi piace riflettere con metodo filosofico sulla gastronomia. Con una certa evidenza, la gastronomia dimostra che si trasmettono per eredità culturale da una generazione all’altra non solo la sapienza, ma anche l’ignoranza. Per esempio, molti ignorano che il disprezzato pisciacane è il taràssaco, un’erba più preziosa, per una sana alimentazione, della ricercatissima cicoria di campo. Quasi tutti ignorano che le pendici della rupe orvietana, ma anche la campagna, sono invase da una verdura squisita e gratuita che è il ramolaccio, altrimenti detto rapastrello, simile nell’aspetto (e più delicato nel sapore) ai broccoletti di rape. Potrei continuare con altre decine di esempi per dire semplicemente che in ogni campo, compreso quello politico, la presenza di una ignoranza tradizionale condiziona le opinioni. Una opinione dominante è che i piccoli comuni non sono in grado di funzionare e che devono essere soppressi per realizzare le cosiddette economie di scala; vale a dire per razionalizzare le istituzioni pubbliche. Sennonché la vicina Francia, dalla quale deriva il nostro assetto costituzionale e amministrativo, a quasi parità di popolazione con l’Italia, ha un numero cinque volte superiore di comuni. Andare a vedere in Francia come hanno risolto il problema della sopravvivenza dei piccoli comuni e della efficienza della pubblica amministrazione è un consiglio che inutilmente dispenso da anni ai nostri amministratori locali. Il comune di Orvieto è gemellato con Givors, un comune francese di 19.442 abitanti situato nel dipartimento del Rodano della regione del Rodano-Alpi. Il gemellaggio e la relativa vicinanza potrebbero essere utilizzati, con modica spesa, per qualche giornata di studio sul sistema francese degli enti locali. Forse gli amministratori comunali di Orvieto e dei comuni vicini potrebbero chiarirsi le idee sulle unioni dei comuni e percepire la necessità della collaborazione intercomunale. Invece molti di essi se ne stanno pigramente avviluppati nella loro boriosa ignoranza e altri s’innamorano delle fusioni, abboccando ai miti di un superficiale riformismo. Come convincerli a mangiare il taràssaco, di cui Maurice Mességué garantisce il pregio alimentare? Continueranno a chiamarlo pisciacane e a scansarlo.