LA REGIONE SEMPLIFICA LE NORME URBANISTICHE. VIA LIBERA AGLI ABUSI?
Caro Leoni,
giovedi scorso OrvietoSi annunciava: “Oggi giovedì 29 entra in vigore testo unico governo del territorio”. Si tratta, come certamente lei sa, della legge n. 1 del 21 gennaio 2015, con cui la Regione Umbria riordina le norme in materia edilizia ed urbanistica. Gli intenti sono una meraviglia: “L’obiettivo – dichiara la Giunta regionale – è quello di raggiungere un buon equilibrio tra delegificazione e semplificazione, perseguendo l’assetto ottimale del territorio, secondo i principi del contenimento del consumo di suolo, di riuso del patrimonio edilizio esistente e di rigenerazione urbana, valorizzazione del paesaggio, dei centri storici e dei beni culturali”. Le premetto che la semplificazione è sicuramente un buon obiettivo, ma mi chiedo e le chiedo cortesemente: se senza semplificazione fino ad oggi il territorio è stato piuttosto bistrattato e sostanzialmente, tra un abuso e un altro, un condono e un altro, un non controllo e un altro, ognuno ha fatto abbastanza quello che gli pare (basta aprire quegli occhi che chi deve vedere tiene rigorosamente chiusi), con la semplificazione non si rischia di far diventare legge la furbizia, la nostra (loro) specialità speciale?
Gian Enrico B.
Caro Gian Enrico, “le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni”. Questo celebre detto trova una verifica nelle cosiddette “leggi-manifesto”, sia regionali che nazionali. Si tratta di quelle leggi che antepongono alle disposizioni vere e proprie le nobili intenzioni del legislatore. Il “buon equilibrio tra delegificazione e semplificazione” perseguito dalla nuova legge regionale è un modo pomposo di annunciare novità positive, ma è la confessione implicita dell’insuccesso delle leggi finora in vigore. Riconosco che è difficile scrivere buone leggi, farle osservare, contenere gli eccessi in momenti di sviluppo economico e stimolare la ripresa in momenti di recessione. Sono queste difficoltà che hanno sfigurato il paesaggio italiano, dissipato il territorio, aggravato i danni dei fenomeni naturali e determinato il caos dei trasporti. Se non si coltiva l’educazione ai valori etici ed estetici, non c’è niente di buono da sperare dalle leggi-manifesto.
IN COMUNE LA CONFUSIONE DI RUOLI È EVIDENTE. È NORMALE O SPIA DI MALATTIA?
Caro Leoni,
Nei giorni scorsi l’assessore Massimo Gnagnarini, che a suo tempo è stato eletto in una lista civica che mi pare si chiamasse “Per andare avanti” (che già nel nome indicava il peso, la fatica, dell’operazione), ha ricordato a brutto muso a Scopetti-PD che non governa da solo e non può pretendere di dettare legge. In un sito è stato letteralmente massacrato, forse premessa di una giubilazione precoce? Ma comunque quasi nessuno ha notato che in sostanza l’assessore ha parlato per conto del suo sindaco e che in ogni caso ha fatto il capocorrente, sostituendo così, oltre al sindaco, anche il capogruppo della lista da cui proviene. A me queste confusioni di ruolo non piacciono, mi sembrano la spia di una malattia che si aggrava. Secondo lei le dobbiamo invece considerare normali? Che mi può dire?
Decio M.
Caro Decio, lei mi pone una domanda imbarazzante perché conosco troppo bene le personalità del sindaco e dell’assessore Gnagnarini. E tale conoscenza mi porta forse a sopravvalutare l’elemento psicologico. Mi porta a pensare che l’introverso ma scaltro Germani sia ben contento del modo di mettersi in mostra del suo estroverso e altrettanto scaltro assessore. Certo, c’è una confusione dei ruoli, ma l’unico malato mi sembra il PD.
CHE BISOGNO C’È DI FONDERE I PICCOLI COMUNI?
Caro Barbabella, la Regione Umbria sta per varare una nuova legge sul riassetto degli enti locali che privilegia, in termini di incentivi finanziari e di preferenze nell’accesso ai contributi regionali, nell’ordine, le fusioni dei Comuni, le unioni dei Comuni superiori a 10.000 abitanti e le unioni dei Comuni tra i 5000 e i 10.000 abitanti. Perché, secondo lei, questo incoraggiamento alle fusioni dei Comuni, cioè all’eliminazione di enti che provengono dalla storia e che rappresentano precise identità storiche e culturali? Le cosiddette economie di scala non possono essere realizzate con le unioni e le associazioni senza distruggere ciò che la storia ci ha tramandato?
Mimmo G.
Lei, caro Mimmo, mi invita a nozze. Una parte della classe dirigente italiana, povera di cultura generale e sprovvista di seria cultura amministrativa, si è fissata con l’idea che le riforme bisogna farle con l’accetta. E qualche ragione dalla sua ce l’ha: siccome per decenni e decenni chi a turno comandava ha rinviato sempre al dopo i cambiamenti necessari e ogni volta già maturi, ci si è convinti che l’ora è adesso e quindi giù, tagliare e tagliare. E così sono arrivati i rottamatori. Conseguenza: dal capostipite sono promanati subito i seguaci e i discendenti, e dal centro alla periferia ormai è tutto un taglio: consiglieri comunali dei piccoli comuni, consiglieri regionali, province, senato, ovviamente tra poco le regioni. Se si voleva risparmiare sul serio bastava tagliare spese superflue, abusi e privilegi (ovviamente dove c’erano). Davvero a pochi (io immodestamente mi metto tra questi) è venuto in mente che così non si va da nessuna parte: si risparmierà poco e niente, si farà una gran confusione, si produrranno ulteriori fenomeni di degrado, avremo una democrazia più povera e sfibrata e una classe dirigente di sicuro più ristretta ma non sappiamo se più qualificata. Viene da chiedersi com’è possibile che non ci sia una ribellione morale e politica a tutto questo. Risparmio ed efficienza si possono ottenere solo se le riforme sono organiche, coordinate, discusse, meditate e poi fatte in continuità e controllate negli esiti, cambiando poi ciò che non funziona. Che senso ha eliminare i piccoli comuni quando il risultato si può ben ottenere con le unioni? Già, che senso ha? Ha il senso della rottamazione, che come sa ogni persona di buonsenso non è cambiamento ma solo sostituzione. Però il popolo per il momento se ne è innamorato. E quando il popolo si innamora … Comunque c’è anche da chiedersi per l’ennesima volta che cosa aspetta il Comune di Orvieto a promuovere la costituzione di una vasta unione di comuni.
LUCA TOMASSINI. L’ORGOGLIO DEL VERO IMPRENDITORE: NON SBAVARE DAVANTI AI SOLDI PUBBLICI
Caro Barbabella, Luca Tomassini, amministratore delegato della prestigiosa azienda orvietana “Vetrya”, ha dichiarato a un quotidiano online sulla digital economy qualcosa di stupefacente: «Per un’azienda la cosa più importante è il fatturato. La crescita del fatturato dimostra che l’idea imprenditoriale non è solo centrata su un progetto di impresa, ma su prodotti, servizi e idee che qualcuno ha già ritenuto utili ed è stato disposto a comprare. Infine, mi scusi, l’azienda deve creare valore. Da sola. Senza i famosi “finanziamenti a fondo perduto” della mano pubblica (peraltro un costume molto, e forse solo, italiano). È come un bambino, va sostenuto per imparare a camminare, poi deve imparare a correre da solo.» Parole sante. Lo Stato deve darti la possibilità di crescere, di studiare e di essere libero, il resto lo dovresti fare da te. Perché invece in Italia quasi tutti sbavano davanti ai soldi pubblici?
Romualdo M.
Caro Romualdo, conosco bene Luca Tomassini, fin da quando le tecnologie digitali dalle nostre parti muovevano i primi passi. Con lui e Marco Olimpieri organizzammo con mezzi di fortuna nell’aula magna del liceo Majorana alcune serate per far conoscere a docenti, genitori e cittadini, quella tecnologia e quel mondo che si stava aprendo. Da allora Tomassini ha fatto uno splendido percorso da imprenditore che capisce il mondo e vi si colloca appunto avendo imparato “a correre da solo”. Perché tanti altri al contrario sbavano davanti ai soldi pubblici? Mi verrebbe da dire: “semplicemente perché non sono Luca Tomassini!”. Ma mi rendo conto che la cosa è molto più complessa. Basta fare riferimento a tre aspetti della vita: le capacità individuali, il tipo di formazione, le opportunità. E a tre orientamenti sociali: l’ammirazione per i furbi, la propensione a delegare ad altri le responsabilità, la percezione dei capaci come un potenziale pericolo. Poi non si dimentichi la lunga storia dell’idea che i guadagni sono miei e i debiti sono di tutti. Da ultimo, e forse sopra ogni altra cosa, un mammismo diffuso, da casa a scuola. Basta così? Sì, credo che basti così.
Habemus Mattarellum! Dal caos ad un ordine possibile?
di Franco Raimondo Barbabella
È fatta, Sergio Mattarella è il nuovo Presidente della Repubblica. Una persona perbene, un democristiano doc figlio politico di Aldo Moro e fratello politico minore di Ciriaco De Mita, gente di razza. Esito finale di un percorso a tappe in cui si è dispiegata senza freni inibitori la spregiudicata furbizia di Matteo Renzi, di fronte alla quale la pochezza degli altri non ha fatto nemmeno cronaca.
Prevalgono i giudizi positivi innanzitutto sulle qualità della persona: la riservatezza e il rigore morale, la coerenza politica democratica, la moderazione, il rispetto delle differenze e la vocazione alla loro conciliazione, la competenza giuridica, la fedeltà alle istituzioni e alla costituzione repubblicana. Ma ci sono, com’è naturale, anche quelli che quasi a cose fatte (il giorno prima) si lamentano di qualcosa: i socialisti (ovvio, una parte) che per la terza volta è stato umiliato Amato, i radicali (ovvio, una parte) che non è stata scelta Bonino, i liberali (ovvio, una parte) che non è stato preso in considerazione Martino, i leghisti e i grillini (non si sa quanti) che non è stato scelto non si sa chi. Gli stessi, quasi tutti, che poi a cose fatte si allineano.
Tutti in verità, sia gli uni che gli altri, hanno dalla loro qualche ragione. Il fatto che balza agli occhi però è che, come è stato notato da più parti, in occasione delle elezioni per la conquista del Colle ognuno riscopre la sua antica appartenenza e tende ad operare perché prevalga sulle altre, ed è logico dunque che il risultato finale sia la vittoria delle appartenenze più forti. Quali sono lo si sa, e non ci sono giri di parole che lo possono mascherare del tutto: sono le appartenenze alle famiglie democristiana e comunista, che escludono per definizione, avendo archiviato le eccezioni pure molto significative (Einaudi, Saragat, Pertini, Ciampi), socialisti, liberali e laici.
Il discrimine, che affonda le radici nella storia italiana, è l’idea che la comunità (che, attenzione, non coincide necessariamente con il bene comune) viene prima e sta al di sopra dell’individuo (anche quando lo si intenda come persona) sia nell’economia che nelle relazioni e nei ruoli sociali. Probabilmente c’è di mezzo la logica gerarchica della controriforma contro il libero esame (della Bibbia), o forse il familismo (amorale), o magari qualcosa di più recente, come potrebbe essere la trasformazione dell’interesse generale in finzione mediatica o anche lo spirito di autoconservazione di una fauna politica che si fa comunità man mano che si stacca dal popolo. In questa idea c’è stata e c’è una tendenza conservatrice, talvolta più esplicita e talvolta più nascosta e sottile, che in certe condizioni diventa una cappa soffocante e che però in altre condizioni, come dirò tra poco, può anche essere una garanzia e trasformarsi addirittura in elemento propulsivo.
Fatto sta comunque che l’abilità di Renzi rifulge: giocando su tavoli diversi è riuscito ad avvalersi di ben quattro maggioranze, una di governo, una per le riforme, una per la scelta finale della candidatura, una per l’elezione del nuovo inquilino del Colle. Tanto di cappello dunque. Naturalmente, come in tutte le cose, c’è almeno un ma. L’esito brillante infatti non può nascondere non solo le differenze e le diffidenze, che sono aumentate a dismisura, ma la profonda frammentazione di un mondo politico che non ha strategie ma solo tattiche di potere, non disegni di un qualche respiro ma solo obiettivi limitati e carriere personali. Uno spirito comunitario apparente e debole e un individualismo reale forte, abilmente mischiati per l’occasione al fine di ottenere un risultato almeno decente. Dunque: visione scarsa, progetto generale corto, acque nient’affatto calme. Tuttavia, proprio perché è questa la situazione politica, l’elezione di Sergio Mattarella, per le caratteristiche della persona e dei compiti che obiettivamente ne derivano, può aiutare chi si vuole impegnare per esiti positivi su diversi fronti.
Prendiamo la necessità delle riforme. Forse andranno avanti, ma se continueranno con le caratteristiche già viste (la riforma raffazzonata delle province, quella illogica del senato, la distribuzione a pioggia degli 80 euro, i provvedimenti fiscali che stanno uccidendo i ceti medi) e comunque senza un senso compiuto di ciò che deve essere e di come deve funzionare complessivamente lo Stato, allora si potrà continuare a chiamarle riforme, ma certo saranno cattive riforme. La speranza è che il nuovo presidente condizioni in positivo la logica riformatrice pure necessaria.
Comunque sia, sarà bene mettersi in testa che le comunità locali saranno sempre di più chiamate a salvarsi con le proprie forze e facendo blocco con altre. Perciò scoprendo e affermando gli interessi che uniscono, secondo un intelligente spirito comunitario (quello che valorizza le differenze in un quadro di compatibilità), e avvalendosi delle competenze e delle abilità delle proprie classi dirigenti. Anche in questo senso l’elezione di Sergio Mattarella indica una strada percorribile. Anzi, al nostro livello, la ricerca di ciò che unisce è diventata ormai la priorità delle priorità, proprio perché il particolarismo e le lotte per bande ci stanno portando ai margini del futuro che in gran parte è già presente.
Allora, vietato tirare a campare, vietato snobbare, vietato fare i furbi. Di furbi quando ce ne è uno di livello è già sufficiente. Meglio attrezzarsi intorno a idee e progetti di spessore e verificare, senza aspettare una manna che non c’è, le possibilità di convergenza di storie ed esperienze diverse su obiettivi sensati e praticabili. Magari non otterremo un ordine desiderato, ma eviteremo il caos. Ciò che non può non interessare tutti.