IL VECCHIO SINDACO BACCHETTA IL NUOVO. CHI HA RAGIONE?
Caro Leoni,
l’ex sindaco Concina shiaffeggia, bisogna dire con stile, l’attuale sindaco Germani definendo comico il suo tentativo di attribuire a sé e alla sua Giunta una serie di risultati che invece secondo Concina sono stati ottenuti grazie all’impegno della precedente Amministrazione. Ne cita molti, ma spiccano per importanza questi: “aver messo il bilancio in sicurezza”, il “recupero del credito con la città di Napoli per i rifiuti”, e inoltre “il Contratto di Fiume, il rifinanziamento della Legge Speciale per Orvieto e Todi, il PRUSST”, il PUVAT, un progetto che riguarda ex Piave ed ex Ospedale. Certo, mi sa che Concina tutti i torti non ce l’ha: se i risultati di sei mesi sono quelli, non possono essere merito di Germani. Soprattutto “aver messo in sicurezza il bilancio”. Ma il bilancio all’epoca di Concina non era allo sfascio? E non doveva essere Gnagnarini a sistemare le cose? Come ha fatto a farlo in soli sei mesi? Suvvia, manco fosse il Mago Telma, non crede?
Giovanni B.N.
Caro Giovanni, l’amministrazione Germani sta operando, senza sentire il dovere di ringraziare, nel quadro corretto e sicuro del piano di riequilibrio varato dall’amministrazione Concina e approvato dal Ministero dell’interno e dalla Corte dei Conti. La riconoscenza è rara in questo mondo, figuriamoci in politica. Ma il principale effetto benefico del piano Concina, di cui gode l’amministrazione Germani, è che gli assessori non possono illudersi (come si erano illusi molti assessori di Concina che, disillusi, se ne andarono) di fare qualcosa di più che le belle statuine. E questa pietrificazione garantisce la stabilità.
LA NOMINA DEL SINDACO COMMISSARIO DEL PALAZZO DEL GUSTO CERTIFICA LA GESTIONE FALLIMENTARE DELLA STRUTTURA. MA LUI CI DIRÀ LE RAGIONI DEL FALLIMENTO?
Caro Leoni,
ho letto che “Il presidente della Provincia Di Girolamo ha nominato il sindaco di Orvieto delegato per seguire direttamente l’attività del Palazzo del Gusto, a cui è tra l’altro collegata anche la gestione del Belvedere”. Il sindaco dice che questa è una svolta perché così l’Amministrazione può programmare il turismo a 360°. Ma l’autore dell’articolo richiama un aspetto che io credo molto importante: “Sarà utile indagare il perché finora non si sono visti risultati, se si vuole imparare dagli errori e correggere un tiro del tutto fuori bersaglio”. Niente risultati, a fronte però di una barca di soldi arrivati. L’autore dice che non è questione di persone ma di progetto. Sarà, ma mica saranno stati i simpatici colombi di San Giovanni a gestire questa roba. Secondo lei sarà il caso che ci si capisca qualcosa?
Evandro G.
Caro Evandro,
la gestione del Palazzo del Gusto e del Belvedere è stata assegnata a un imprenditore mediante una procedura ad evidenza pubblica. Ciò garantisce una buona dose di trasparenza e un cambiamento di rotta nell’amministrazione dei servizi pubblici di carattere economico. La efficacia, cioè la qualità della gestione, va giudicata tenendo conto delle condizioni contrattuali e dello stato dei beni, attraverso un confronto in cui l’imprenditore possa rispondere ai rilievi formulati da chi ha il dovere e il potere di formularli; e va giudicata da chi ha il dovere e il potere di giudicare.
“IO SONO CHARLIE”, “IO NON SONO CHARLIE”
Caro Barbabella,
mi sembra evidente che, come ha detto Benedetto XVI, la cultura post-positivista oggi dominante tratti le religioni come sottoculture tollerate. Altrimenti non esisterebbero riviste come Charlie Hebdo. I cristiani, quando è offesa la loro religione, sono tenuti a perdonare: Avete inteso che fu detto: “Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico”. Ma io vi dico: “amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano.” Invece i maomettani sono tenuti a incazzarsi. E s’incazzano a morte. Cerchiamo allora di convincerli che più s’incazzano e più sono umiliati dalla storia. Ma è giusto farlo offendendoli? In questo consiste la nobiltà della tanto decantata libertà illuministica?
Francesca R.
Cara Francesca, prima di venire alla questione che lei mi pone, mi permetto di osservare che se lei, come sembra, per cultura post-positivista intende il lascito del positivismo ottocentesco che, con il suo razionalismo scientista e laicista, continuerebbe fino ad oggi incarnandosi tra gli altri in riviste come Charlie Hebdo, allora a mio avviso è del tutto fuori strada. Per due ragioni: perché oggi il razionalismo non è ideologico ma critico, cioè capace di promuovere la convivenza e la collaborazione delle diversità e dunque di mettere in dubbio la pretesa di chiunque si presenti come custode di verità ultime e definitive, e perché l’orientamento di Charlie Hebdo, ammesso che se ne possa dare una definizione precisa, potrebbe forse essere definito una forma di radicalismo anarco-individualista o, se si vuole seguire Marine Le Pen, una forma di anarco-trotzkismo, che con il pensiero critico-democratico (per intenderci, quello da “società aperta” di Karl Popper) ha ben poco a che vedere, se non altro per la scelta della provocazione ad ogni costo, costi quel che costi.
Vengo ora alla questione e dico subito che, mentre non è in alcun modo ammissibile la reazione violenta a quella che si ritiene un’offesa o anche un’ingiuria, non è ammissibile nemmeno che si faccia dell’ingiuria e dell’offesa un diritto e che la satira venga trasformata in una specie di religione. E questa che sto esponendo non è certo una posizione cerchiobottista, ma semplicemente un modo preciso di concepire la società e la civiltà.
In questi giorni sulla strage di Parigi ne abbiamo sentite e lette di tutti i colori. Io credo che vi sia un aspetto teorico che va tenuto presente come riferimento pratico, ma che non si sovrappone esattamente alla pratica della vita perché semplicemente non può. Si tratta del fatto che, come diceva Popper, la democrazia ha nella sua stessa natura l’ammissione e la difesa del dissenso come principio fondante, ciò che comporta l’ammissibilità anche delle critiche più feroci senza limiti nella libera scelta dell’oggetto. Quindi, in linea di teoria e di necessità logica, in una democrazia non può essere ammissibile la censura preventiva delle idee e delle convinzioni. Perciò non si può dettare la linea alla rivista Charlie Hebdo e se essa subisce un attacco terroristico e 12 persone vengono ammazzate, qualunque cosa abbiano detto, scritto e disegnato i suoi redattori, non si può dare a loro la colpa del loro ammazzamento ma la si deve dare solo a chi li ha ammazzati. Ed è anche giusto manifestare per questo, essere per un giorno Charlie e riaffermare così i diritti irrinunciabili di una società democratica.
Detto questo, va detto anche che ci sono dei limiti alla libertà e alla comunicazione, anche quella finalizzata a far ridere. Si deve sapere cioè che il mondo reale non coincide con il mondo ideale e dunque, secondo un principio essenziale della civiltà occidentale, ognuno si porta la responsabilità di quello che decide liberamente di fare: se si decide di fare vignette su Maometto (di qualunque natura esse siano, non solo quelle blasfeme) si deve sapere che esse sono inaccettabili per i musulmani e danno il destro, l’occasione, agli estremisti di autogiustificare il loro estremismo e ai capi degli estremisti di avere argomenti per organizzare le loro azioni violente e criminali. La libertà assoluta esiste solo come principio orientativo, ma non può essere messa in pratica come tale perché nella vita reale c’è almeno questo da rispettare: “la mia libertà finisce dove comincia la tua”.
Se decidi di provocare i credenti di qualche religione, in questo caso l’islam, devi sapere che nelle condizioni storicamente determinate (quelle di oggi) quello che è accaduto sarebbe potuto accadere e se continui può continuare ad accadere. Si tratta solo di decidere se è giusto o no non solo rischiare per sé ma far rischiare anche altri che magari non sono affatto d’accordo. Uno dei fondatori di Charlie Hebdo dice che proprio per questo non è d’accordo con i suoi compagni d’un tempo. In ogni caso si dovrà ammettere che se è legittimo dire “Je suis Charlie” sono anche legittimi i cartelli della manifestazione di Algeri con su scritto “Je suis Mohamed”. E non ci si potrà scandalizzare se si sentirà gridare “Le peuple veut un Etat islamique“. Credo che questo e solo questo abbia voluto dire Papa Francesco.
Lei dice che di fronte all’offesa alla propria religione, mentre il cristiano deve porgere l’altra guancia, il musulmano deve incazzarsi. Già, ma anche lei ammetterà che nella pratica della vita non tutti i cristiani porgono l’altra guancia, anzi è piuttosto raro che questo accada, né tutti i musulmani s’incazzano, anzi la maggioranza non segue il jihadismo. Allora la cosa mi pare meno schematica di come la pone lei. Mi pare che potremmo dire così: se i cristiani decidono di non porgere l’altra guancia e però non ammazzano è perché con la ragione controllano le pulsioni e i sentimenti estremi; idem per i musulmani. Ecco, penso che un buon tasso di razionalismo moderno, un controllo delle pulsioni derivante da conoscenza delle cose e disponibilità a comprendere le ragioni altrui, sarebbe un’ottima cura per le nostre società malate. Ma niente ipocrisie e false solidarietà con chi deborda offendendo e sapendo di offendere, e soprattutto nessuna tolleranza con gli intolleranti (regola aurea della democrazia sempre secondo Karl Popper).
Se ha pazienza, legga anche il mio elzeviro di questa settimana, dedicato a questo stesso tema che avevo scritto qualche giorno fa a caldo.
POLITICA MALATA
Caro Barbabella,
circola nei mass media la bella scoperta che due tumori su tre sono imprevedibili e inevitabili, cioè dipendono dalla “sfiga”. Ma la constatazione vale anche per la classe politica. Hai voglia ad impegnarti nello studio, nella proposta e nell’impegno disinteressato. Poi ti ritrovi con un consiglio comunale come quello di Orvieto, che non sarà come un tumore maligno, ma che non è certo segno di buona salute.
Mirko S.
Guardi, caro Mirko, io non so ancora se sia giusto formulare un giudizio così inappellabile sul Consiglio comunale di Orvieto, ma sono sicuro che le cose che sento e vedo esprimono un modo di intendere la politica lontano dalle mie convinzioni. Lo ho rimarcato recentemente con un intervento su questo giornale a proposito della mozione approvata quasi all’unanimità sulla nuova legge elettorale regionale. Non capisco che senso abbia fare il consigliere comunale se non ci si preoccupa innanzitutto di difendere gli interessi della città che si rappresenta. Né capisco come ci si possa sentire legittimati a ricoprire un ruolo di rappresentanza se qualcuno ti chiede ragione del tuo operato e tu non rispondi. Questo si chiama arroganza. Stando così le cose, ci si potrebbe fermare qui e dire semplicemente che il consiglio è stato eletto dal popolo e sarà dunque il popolo a giudicare. E magari fermarsi alla sua constatazione che studiare, proporre, stimolare il dibattito, alla prova dei fatti vale poco e niente. Ma se ci si accontenta di questo stato della democrazia ci si dovrà anche accontentare dei risultati pratici che ne derivano. Se Orvieto, nonostante da una parte il profluvio di dichiarazioni e proclami, e dall’altra il movimentismo felpato e l’attivismo fumoso, continuerà nel suo lento declino nessuno se ne dovrà sorprendere. Se Orvieto non avrà più rappresentanza in Consiglio regionale sarà anche colpa di questo consiglio comunale e di tutti coloro che sapevano e non sono intervenuti, potevano e non hanno fatto nulla o hanno fatto qualcosa ben sapendo che operavano per interessi di altri.
SVEGLIAMOCI, È QUASI TARDI!
di Franco Raimondo Barbabella
Non voglio usare parole più forti, ma la strage di Parigi con tutto ciò che vi è connesso è un pugno in faccia a quella che noi definiamo come nostra civiltà senza ulteriori specificazioni. Le analisi degli opinionisti fanno a gara nel tentativo di coglierne le origini, i significati, le conseguenze, le migliori strategie di difesa.
C’è quella di Antonio Polito sul Corriere della sera del 10 gennaio: di fronte ai grandi cambiamenti la nostra presuntuosa indifferenza ci mette in seria difficoltà sia per capire sia per reagire con tempestività ed efficacia.
C’è quella di Domenico Quirico su La Stampa dello stesso giorno: i jihadisti sono accomunati dal sentirsi la piccola parte di un tutto, e il tutto è visibilmente una parte di loro. Si tratta di una nuova forma di totalitarismo, un universalismo che supera tutti i confini in nome di Allah.
C’è poi quella di Galli della Loggia sul Corriere della sera dell’11 gennaio: nel mondo islamico ci dovrebbe essere qualcuno che fa oggi quello che fece Rossana Rossanda quel 28 marzo del 1978 quando, in pieno sequestro Moro, indicò nell’“album di famiglia” il luogo politico-culturale per andare a cercare chi erano le brigate rosse. Infatti, egli dice, se ci sono in giro per il mondo migliaia e migliaia di fanatici assassini che uccidono e sgozzano senza pietà invocando Allah e il suo Profeta, allora deve esserci qualche legame effettivo, distorto o frainteso quanto si vuole, con qualcosa che riguarda l’Islam. Ma si ferma qui e non dà la risposta.
E quella di Sergio Romano lo stesso giorno sullo stesso giornale: se le strategie finora adottate non hanno impedito la strage di Parigi, allora occorre rifare i conti con la realtà. E se la realtà dice che in giro per il mondo, dalla Russia all’Egitto, ci sono autocrati che conoscono bene i fanatici islamici e li sanno controllare, allora con loro dobbiamo ragionare ed allearci per uno scopo comune. Come saltano gli schemini mentali, eh?
Si potrebbe continuare a lungo per l’Italia (il quotidiano Avvenire: no a Charlie Hebdo e no al fanatismo; Il Foglio: siamo di fronte ad una deriva violenta della umma coranica nel mondo; ecc.). e lo stesso almeno per la Francia, per la quale mi limito a segnalare quanto riferisce Mauro Zanon su Il Foglio: per il giornale della gauche Liberation “l’attentato contro Charlie Hebdo ha la brutta faccia di Renaud Camus, di Eric Zemmour e di Marine Le Pen. Ha la brutta faccia della loro vittoria ideologica”. Si tratta di due noti scrittori e della notissima esponente politica di estrema destra. Ogni commento in questo caso mi pare inutile.
Ma sinceramente tutto questo non mi soddisfa, anzi mi crea angoscia. Parlo solo dei commentatori che usano il cervello, perché poi ci sono quelli che dicono cose che fanno rabbrividire. Mi sembra che ognuno di loro colga qualcosa di significativo, ma anche che nessuno riesca a far emergere una interpretazione che riesca a congiungersi ad una missione di grande respiro che esca dall’oggi e si proietti in un futuro possibile su cui lavorare qui ed ora. Ma dov’è quel grande pensiero di cui abbiamo drammaticamente bisogno? Dov’è il nuovo Karl Popper? O il nuovo Benedetto Croce? Ricordate la “religione della libertà” del grande don Benedetto di fronte ai totalitarimi del Novecento? E ricordate la straordinaria lezione di sir Karl sulla democrazia, la forma politica della “società aperta”?
Eccone alcuni passaggi emblematici: “Se la democrazia è distrutta, tutti i diritti sono distrutti; anche se fossero mantenuti certi vantaggi economici goduti dai governati, essi lo sarebbero solo sulla base della rassegnazione”. “Dovremmo rivendicare, nel nome della tolleranza, il diritto a non tollerare gli intolleranti”. Infatti “La tolleranza illimitata porta alla scomparsa della tolleranza. Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi”.
Grande lezione, ma dove sono gli interpreti politici capaci di trasformarla in azioni coerenti? Non una volta per tutte, ma in ogni momento della storia, dunque anche oggi. Ieri e l’altro ieri ce ne sono stati, anche in Italia. Ma oggi se ne intravede qualcuno, almeno l’ombra? E se non se ne vedono, nel frattempo che si fa? Lascio aperta la risposta. Ma svegliamoci, almeno confrontiamoci con una realtà che cambia, si sta facendo tardi!