di Mario Tiberi
E’ di tutta evidenza, ormai, alla più o meno vasta platea di coloro che ancora sono interessati all’evolversi delle vicende politiche nazionali, e forse non solo ad essi, che la cosiddetta Seconda Repubblica stia vivendo innegabilmente i suoi estremi sussulti, giacendo da tempo in condizioni di permanente affanno istituzionale ed avaria democratica a causa delle contraddizioni, insite nel suo stesso atto di nascita, e principalmente dovute al maldestro tentativo di voler ostinatamente costruire un impianto governativo di stampo presidenziale avendo, alla base, una Costituzione limpidamente e inequivocabilmente orientata a riconoscere al Parlamento elettivo il ruolo di suo fulcro, di suo cuore, di suo motore legislativo.
Vorrei, in via preliminare, offrire un qualche chiarimento intorno ai due modelli di governo, quello parlamentare e quello presidenziale, che la dottrina classica considera come di gran lunga diversi l’uno dall’altro e quasi contrapposti. Ma la “dottrina” è stata ideata dai cultori e dagli studiosi del Diritto Pubblico i quali, ove più ove meno, traggono spunti argomentativi dai testi delle Costituzioni scritte non avvedendosi, pur con lodevoli eccezioni, che le consuetudini e le prassi sovrappongono sempre di più alla legge formale quella materiale o sostanziale.
E’ parlamentare quel governo che, attingendo la sua origine di legittimità ed autorità in seno alle due Camere elettive, nasce in virtù di un voto di fiducia e si estingue in conseguenza di un uguale e contrario voto di sfiducia espresso dalle Camere stesse o da una di esse.
E’, invece, presidenziale quel governo che trae direttamente i suoi poteri dal consenso maggioritario degli elettori e delle elettrici: sono questi e queste che scelgono il Capo del Governo o Presidente del Consiglio e, a sua volta, il Presidente eletto sceglie i suoi Ministri, membri del “Gabinetto”, i quali rispondono dei loro atti solo ed esclusivamente a Lui e non ai due rami del Parlamento.
Quest’ultimo discute, ordinariamente in sedute separate e solo eccezionalmente in seduta congiunta, le proposte di legge presentate in via principale dal Governo e, in subordine, i disegni di legge scaturiti dal lavoro prelegislativo dei singoli Deputati o Senatori.
Che la prima, quasi cinquantennale, esperienza repubblicana sia stata di chiara impronta parlamentare, non v’è alcun dubbio; come non v’è alcun dubbio che la Seconda Repubblica non è mai riuscita a decollare perché ancorata a schemi ambigui ed ibridi, conseguenza della frammistione, illogica e scomposta, tra taluni elementi della impostazione parlamentare con altri di quella presidenziale.
Da codeste secche non si esce, tenuto anche conto della fragile debolezza della politica contemporanea, se non volgendo lo sguardo oltre l’attuale ristagno.
Bisognerà, dunque, iniziare a ragionare su una ipotesi di auspicabile e fattibile “ Nuova Repubblica”?. Forse o certamente sì, ma non senza aver prima gettato il seme per una seria ed approfondita riflessione ad essa propedeutica.
Accostarsi, disarmati e impreparati, alla soglia di una avventura che apra le porte verso una sfida epocale, assume il connotato della stoltezza e dell’incoscienza se non si avrà la caparbietà e il coraggio di un radicale cambiamento di mentalità, di “modus cogitandi”, di visione dell’insieme e, al tempo stesso, la necessaria forza di allontanare dalle “stanze dei bottoni” coloro che si oppongono a detta ineludibile esigenza.
Nel contesto dei giorni d’oggi, è ampiamente diffusa la percezione che chi ricopre cariche di funzioni potestative e amministrative si comporti poi, nell’espletamento delle stesse, come se fosse più un padrone che non un leale servitore delle pubbliche Istituzioni e che, proprio in quanto ritenendosi padrone, difende con le unghie e con i denti lo “status” di padronanza con tutti i privilegi, le prerogative e i benefici ad esso inerenti.
Vale per Roma, sede del Governo e del Parlamento nazionale; vale anche per la città di Orvieto, considerati i recentissimi atti deliberativi della Giunta Comunale in tema di fiscalità civica e di nomine nelle partecipate.
Ma vi è ancor di più: sarebbe stolido e irragionevole se si etichettasse il rivoluzionario ordinamento repubblicano tutto da costruire come terza o quarta o quinta Repubblica poiché, anche agli occhi degli sprovveduti, appare chiaro che non di numerazioni all’infinito si tratti. Di Repubblica, infatti, ve ne è una sola: è la Repubblica dei doveri e dei diritti delle cittadine e dei cittadini all’interno della quale, come diritti, devono primeggiare quelli connessi all’abitazione di famiglia, alla formazione e all’istruzione pubblica, al lavoro tendente alla piena occupazione, alla salute individuale e collettiva, e, come doveri, quelli che si enucleano dai valori dell’onestà, della rettitudine, della coerenza, della tutela della dignità della persona umana.
Solo dopo aver riportato l’esercizio delle funzioni pubbliche nel suo alveo naturale, si potrà porre mente e mano alla progettazione di una “Nuova Repubblica”: quale sarà e su quali cardini poggerà e si fonderà, il dibattito appena aperto ne assumerà la veste di provvido consigliere e fedele testimone.
Sarebbe, però, già un ottimo principiare se l’eleggendo Capo dello Stato fosse del tutto estraneo rispetto all’oscena diarchia che pretenderebbe di instaurare l’innaturale duo Renzi-Berlusconi. Solo così, e non certo altrimenti, il popolo sovrano potrebbe ben incamminarsi sulla via della piena riappropriazione della sua Repubblica.