di Fausto Cerulli
Per me Flavio è stato sempre una sorta di gigante buono. Ho frequentato molto la sua casa a Colonnetta, lo vedevo nel suo laboratorio, felice di farci vedere quello che andava creando con il suo scalpello sul legno che lui ama tanto e che con amore lo ricambia. Sapevo che è un artista del legno, ma sono comunque rimasto sorpreso e quasi teneramente frastornato dalla esplosione di sculture che ha riempito la Chiesa di Sani Giacomo. Una sala affollata, Flavio intento a porre qualche dedica sul catalogo, e tutto intorno, sulle pareti, una ininterrotta galleria di sculture.
Lievi profili di donna, donne che si tengono per mano quasi in una passeggiata di sogno, sculture raffinate nelle pieghe minuziose degli abiti in foggia antica o nuova. Delicatezza e forza si inseguono, si sovrappongono, disegnano antichi arcani misteri e geometrie quasi massoniche. Tarocchi e volti, volti che si fanno tarocchi e poi tornano ad essere volti, in uno stralunato andare dall’arcano al magico, e vorrei parlare, con termine abusato, di realismo magico o forse di magia realistica: Si avverte la minuziosa attenzione per i particolari, un’ attenzione quasi artigianale, ma che poi giunge alla verità brusca dell’arte. E Flavio, il mio gigante buono, sorpreso dalla sorpresa che colpiva come una frustata di meraviglie i molti visitatori. E lui seguitava a firmare autografi, lui che è così schivo e insieme così cosciente del proprio valore. Non sapevo che cosa dirgli, dall’alto o dal basso di un’amicizia che dura da anni. L’ho abbracciato commosso, come mi accadde solo una volta, e noi lo ricordiamo come una sorta di cantilena triste. E Flavio ha ricambiato il mio abbraccio, ma mi è sembrato stranamente distratto. Sentivo che lui stava pensando al suo clamoroso successo, lui sempre geloso della sua arte, schivo alle lodi, ma anche sicuro di meritarle. Sono tornato a scorrere con occhi sempre più attenti la galleria affollata di immagini. E la mia compagna mi faceva notare particolari che mi erano sfuggiti, che erano fuggiti nella strana dolcezza dell’insieme. E ho riconosciuto il mio gigante buono: in quei lavori ritrovavo la sua indole vera, quel suo orgoglio senza iattanza,quel suo mettermi quasi soggezione per la sua cultura profonda e mai ostentata. Quella cultura che era sottintesa a quelle sculture in legno, quasi messaggi mandati a se stesso, Quella cultura che lui non vuole mettere in mostra, ma che ritrovi, come sottintesa, in tutto quello che il suo scalpello è riuscito a regalarci. Tutti i visitatori mostravano ammirazione, ma credo che non tutti abbiano compreso il senso vero di quelle opere. Se è vero che l’artista è la propria arte, e che l’arte è l’artista, io credo che sia necessario conoscere l’artista per capire la sua arte. Io e pochi altri abbiamo il privilegio di sapere che quell’arte è legata all’amore di Flavio per il legno, un corrisposto amore, a come ne intuisce le vene vitali, a come ne spia le sfumature. Un amore quasi ossessivo, quasi maniacale. Credo che Donatello abbia amato a quel modo i marmi, li abbia avuti per amici, li abbia accarezzati con la mente prima di trarne arte. Ed a questo ed in questo ritrovo Flavio e le sue opere .Un regalo per gli occhi e per la memoria. Uno sprofondare nei colpi di scalpello, per cercarne il conforto vero dell’arte. E qui mi taccio, come dice il poeta. Flavio non vuole troppi complimenti, sa farsene da solo, e meritati e meditati.