di Silvia Melone
Sono passati 13 anni dalla scomparsa di mio padre e ancora oggi mi ritrovo a sentire il bisogno di scrivere e a raccontare di lui, del grande padre che è per me, ma anche della grande persona che è stato per la maggior parte di coloro che lo hanno conosciuto.
Ancora a distanza di tempo ci sono alcuni che mi fermano per strada o che per un caso fortuito vogliono condividere con me la storia di come lo hanno conosciuto e non sanno quanto per me sia difficile, ancora oggi, ricordarlo e pensare che non ci sia più.
A32 anni posso dire di essermi ispirata a lui, di aver seguito quelle orme che lui aveva già lasciato per me, prima ancora di sapere che la vita, … la morte, le avrebbe cancellate inesorabilmente, come le onde del mare cancellano i segni lasciati sulla
sabbia.
Per me quelle orme, quegli insegnamenti, sono rimasti indelebili, sono i valori su cui ho improntato tutta la mia esistenza, non sono sempre stati facili da seguire, ma oggi che sono anche madre li comprendo appieno e dico ancora … Grazie Papà.
… come oggi pioveva, il trillo insistente e inquietante del telefono vicino al mio letto squarciò la tranquillità della notte. Presi il telefono e capii subito che non sarebbe stata una telefonata piacevole. “Suo padre ha avuto un arresto cardiaco, …”. Sarebbe
spettato a me condividere quella tragica notizia con mia madre e mio fratello. Bisognava partire per l’ istituto oncologico di Milano. Salimmo a bordo di un’auto speranzosi di riabbracciarlo, di poter esserci nel momento più doloroso e soprattutto di rivederlo vivo.
In macchina, chi piangeva, chi stava in silenzio, chi già sapeva e covava dentro di sé un segreto impronunciabile, … mio padre era già morto! Ci stavamo dirigendo verso la camera mortuaria e non verso l’ospedale.
All’arrivo mia madre esce di corsa dall’auto, chi poteva trattenerla? Io rimango in macchina e attraverso i vetri sono spettatrice della metamorfosi agghiacciante del suo viso. Un urlo lacerante si fa largo dentro di me, sale dalla pancia e rimbomba all’infinito
nella mia testa, un “no” acuto e stridente si pianta sull’asfalto madido di pioggia e rimango impietrita ad ascoltarne l’eco.
Dopo, solo il silenzio, parole vuote, bocche afone e sguardi ciechi, ognuno vive il suo dolore cercando conforto nell’abbraccio di qualcuno, fiumi di lacrime si confondono con le gocce della pioggia che inesorabile lava via ogni insignificante barlume di speranza
dalle nostre vite.
Non voglio vederlo, non posso vederlo! No, non ce la faccio… mio fratello entra prima di me e i suoi occhi di bambino diventano gli occhi di un adulto e poi si accascia sul muro in preda ai singhiozzi e a domande senza risposta. Mi faccio coraggio, entro nella stanza,
consapevole che quell’immagine mi rimarrà stampata nella memoria a vita. Mio padre su una lettiga, disteso, le mani sotto un lenzuolo bianco, i piedi con ancora le calze legati insieme con una corda per non farli divaricare. Mi avvicino e mi faccio spazio tra i miei familiari, con la bocca gli sfioro la fronte, è fredda e dura come il marmo, con le mani cerco le sue e le trovo impotenti sotto la stretta delle mie, il suo corpo è vuoto, mio padre non c’è più! Dove ho trovato la forza per non piangere non lo so, dove avrei
trovato la forza per andare avanti ancora non lo sapevo, ma quella sensazione di vuoto sconfortante non mi abbandona da allora.
Aveva solo 40 anni mio padre.
Era cresciuto a Casagiove, in questo paesino vicino Caserta, da una famiglia umile che aveva comprato degli appezzamenti di terra e la lavorava con sacrificio, insieme alle giovani braccia dei figli, per mantenere dignitosa la propria vita.
Ma Stefano, il secondogenito di quella famiglia, a soli sedici anni guardava il cielo con i suoi grandi occhi verdi, verdi come le foglie di tabacco che crescevano rigogliose da quella terra scura e bassa.
Così, contrariamente a quello che avevano immaginato i suoi genitori per lui, si arruolò nell’Esercito Italiano, che sarebbe diventata la sua seconda famiglia e invece che lavorare sulla terra, gli consentì di spiegare le ali e lavorare come elicotterista per il suo paese, per la sua terra.
Numerose sono state le missioni all’estero, Kosovo, Somalia, Libano, Albania, per aiutare chi ne aveva bisogno e innumerevoli le storie che raccontava ai suoi figli e a sua moglie che, pieni di orgoglio, lo riabbracciavano ad ogni ritorno in patria.
Poi, al ritorno da una missione in Kosovo, gli venne diagnosticata una rara forma di leucemia e le sue ali furono spezzate per sempre.
Dal principio la causa del tumore era riconducibile all’esposizione a sostanze radioattive e cancerogene a cui era stato soggetto maneggiando materiali come benzene, amianto e cloruro di vinile, utilizzati per la manutenzione delle armi.
Col passare del tempo e delle indagini portate avanti da mio padre e dall’equipe di medici che lo seguiva, nacque il sospetto che la vera causa della malattia potesse essere causata alle armi all’uranio impoverito ampiamente utilizzate durante i conflitti in Bosnia.
Mio padre e mia madre passarono così da una clinica privata all’altra a proprie spese, finché non approdarono all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, dove i medici diagnosticarono senza indugio una neoplasia maligna causata dall’inalazione di sostanza
tossiche.
Stefano firmò per diventare cavia da laboratorio per trovare una cura possibile a questo raro tumore, per vincere una causa e dimostrare che nonostante adorasse il suo lavoro era stato tradito ed abbandonato dall’Esercito, da quella famiglia di cui portava
orgogliosamente la divisa, ma nonostante la sua buona volontà, morì durante il ricovero l’8 Novembre 2001.
Mia madre il 6 Novembre festeggiò il suo compleanno lontana dal marito che le disse per l’ultima volta “Tanti auguri Amore”, dopo soli due giorni, come se avesse atteso quel momento prima della dipartita, Paola rimase vedova e giurò che se non poteva avere
indietro il marito, avrebbe lottato e continuato la battaglia che aveva iniziato mio padre contro lo Stato fino alla fine, per ricevere giustizia sia per lui che per tutti gli altri colleghi malati.
Mio padre, Stefano Melone, maresciallo ed elicotterista dell’Esercito Italiano, che aveva una grande senso dello Stato, fu il primo militare italiano a cui un tribunale abbia riconosciuto, quale causa del decesso, il contatto con l’uranio impoverito.
Un uomo, un figlio, un fratello, un militare, un marito, un padre, che ha compiuto e assolto i propri doveri con onore e si è ritrovato ad affrontare da solo un percorso duro e difficilissimo, quello per rimanere in vita e in ultimo un cittadino orvietano di cui essere
veramente fieri.