di Laura Ricci
Un anno fa, l’11 ottobre 2013, ci lasciava Paolo Cosenza, più noto, a Orvieto, come Mastro Paolo. E “Mastro Paolo” si è firmato in arte, per molto tempo, sul fondo delle sue ceramiche; e così si chiama, giustamente anche ora che lui è “altrove”, il negozio di Via del Duomo che in suo nome continuano a gestire la moglie e i figli.
Un anno fa, quando Paolo è venuto a mancare, non ero a Orvieto. Non ho potuto scrivere un suo ricordo; e forse non l’avrei potuto scrivere comunque, anche se fossi stata qui, perché ci sono parole e sentimenti che, per dirsi fuori dai riti di maniera, hanno bisogno di decantare e di precisarsi nel silenzio.
“Altrove” in realtà, anche in vita, Mastro Paolo lo è stato sempre: in quell’altrove fuori dagli schemi, dalle costrizioni e dai luoghi comuni che ogni altro artista – o ogni altra particolare sensibilità – silenziosamente o esplicitamente riconosce, così da stabilire sintonie immediate o, in alcuni casi, altrettanto immediate avversità. Il mio incontro con lui, al di là della sua notorietà di ceramista che ben conoscevo, è stato breve e fulmineo: un incontro di lavoro, ma subito un incontro tra “artisti”, di grande sintonia e intensità. Ci siamo voluti bene immediatamente, reciprocamente stimati: quel tanto che è bastato per non farmelo dimenticare, né artisticamente né umanamente. È con questo spirito che a un anno dalla sua scomparsa vorrei ricordarlo, fuori da ogni canone di asettico riconoscimento, in affetto e in semplice ricordo della sua persona e della sua ricerca di artigiano e di artista.
Ci siamo conosciuti più da vicino nell’inverno 2012, mentre stavo lavorando alla realizzazione di www.inorvieto.it. Per organizzare la parte dedicata alla ceramica orvietana avevo convocato nel mio ufficio di allora, per una chiacchierata e per raccogliere informazioni e materiali, i ceramisti artigiani. Avevamo quasi finito la nostra riunione e ci eravamo detti che Mastro Paolo, che pure avevo invitato, non era venuto. Stavamo quasi per alzarci quando il campanello ha squillato… era lui. Risultato? Siamo rimasti a discutere e a confrontarci altre due ore, non tanto per ripetere quello che avevamo già detto, quanto piuttosto per affrontare i temi e i problemi che lui poneva. Che con www.inorvieto.it non c’entravano niente, ma che erano reali e appassionanti. Ricordo che, per meglio socializzare, avevo fatto trovare del vino e le classiche ciambelline che ci si accompagnano bene… parlando parlando, come sempre è auspicabile quando si sta insieme, quella sera sono rimaste solo poche gocce nei bicchieri e, dei biscotti, giusto le briciole. Quando se ne è andato Paolo mi ha guardato intensamente negli occhi e: “Tu sei una che sembra affidabile – mi ha detto – mi piaci”!
A me è piaciuto il suo fare schietto, quasi brusco, e la capacità di evidenziare a me – una sconosciuta quasi – questa istintiva intuitiva fiducia. Mi è piaciuto quello che io chiamo “il coraggio delle parole”.
Pochi giorni dopo, con la mia amica fotografa Ambra Laurenzi, per ultimare il nostro lavoro ho avuto la fortuna di entrare nel suo antro, il suo disordinato laboratorio-studio sulla Via Patarina. “Potete venire e fotografare – mi aveva avvisato – ma io non metto a posto per voi; potete venire solo se in mezzo a tutto il disordine che c’è non vi spaventate”.
Così, tra le sue cataste di forme grezze, smaltate, cotte, da cuocere, nude, decorate, mentre lui parlava raccontava spiegava percorrendo pezzi di memoria, ho scoperto l’essenza della sua arte. Ho capito la sua contemporaneità e, al tempo stesso, il suo radicamento nella tradizione: le forme eleganti e essenziali dei suoi manufatti, che superano la rotonda antica morbidezza per farsi più spigolose e lineari; le strisce variopinte e vivaci, che fanno esplodere in colori più decisi e in circonferenze più nette le righe concentriche della tradizione medievale; e i colori stessi, apparentemente moderni, ma che sono invece, accostati in nuove sperimentazioni, quelli della tradizione di Medioevo e Rinascimento, se non addirittura quelli usati da Luca Signorelli nella Cappella di San Brizio: verde, ocra, giallo, blu, rosso, arancio, turchese.
Nella confusione del suo studio – tra oggetti accatastati, sbeccati e mai gettati, tra pezzi perfetti e pezzi mal riusciti, tra amichevoli ragnatele mai rimosse – ho compreso quel giorno che l’ordine, tanto ordine, Paolo lo fa nella sua ricerca: pulire le linee, minimalizzare, evitare l’accumulo, prendere le distanze dalla decorazione dell’eccesso. Ho capito quanto lavoro, quanto coraggio, quanta solitudine, ma anche quanta fiducia nelle proprie risorse, una scelta di questo tipo comporta. È la stessa scelta della scrittura poetica: accantonare l’ovvio, dare ordine e senso non comune alla parola, costruire metatesti e metafore.
Da allora, di tanto in tanto, Mastro Paolo mi chiamava al telefono, la sera piuttosto tardi. Mi raccontava le sue idee e i suoi dubbi, chiedeva che ne pensavo di progetti che avrebbe voluto realizzare… forse erano sogni, speranze cullate per anni che non hanno potuto vedere la luce, ma che hanno creato un ponte tra noi. Un ponte che continua anche ora che, solo apparentemente, lui non c’è. Fatto di consapevolezze comuni, prima tra tutte quella di quel filo di imperdonabile, di poetica maledizione, che disfa, cuce e ricuce la vita di chi cerca l’autenticità e non si nega di viverla e di esprimerla.
Essere stata amata dalla sua introversa bizzarria è un dono che non si dimentica. Ci sono persone che, dopo aver attraversato e inciso la nostra vita per anni, distruggono e appannano, in pochi minuti, tutto quello che era raro e prezioso. Altre che, in pochi attimi, comprendono la nostra essenza più vera e incidono in noi qualcosa che, al di là della loro presenza o assenza, continuerà a darci speranza, ostinazione, alimento. Mastro Paolo, per me, era e resta una di queste.