di Mario Tiberi
Mi dovete immantinente perdonare: volevo scrivere “Flat Tax” ed invece, per un ancestrale reminiscenza dell’inconscio, mi è scappato un biblico parafrastico “Fiat Tax”.
Tornando con i piedi a terra, dobbiamo chiederci cos’è la “ Flat Tax”. Ebbene, “Flat Tax” significa letteralmente “tassa piatta” ed è un sistema fiscale non progressivo con una sola aliquota ma, essendo un meccanismo non progressivo, si trova almeno in Italia in palese contrasto con la Costituzione Repubblicana la quale, invece, incardina la progressività fiscale come uno dei suoi stipiti fondamentali. Questo, però, vorrebbe dir poco considerato che il dr. Renzi, con tracimante spavalderia, sembra intenzionato a stravolgere, fin nei suoi fondamenti, la Carta Costituzionale Italiana.
Non ci resta allora che procedere, entrando nei particolari della nuova gabella monograda.
L’idea originaria fu del premio Nobel per l’economia Milton Friedman, risalente al 1956. Il primo vero modello teorico, però, venne elaborato nel 1981 da due economisti statunitensi: Alvin Rabushka e Robert Hall.
Detto sistema basato su un’aliquota fiscale unica, per lo più non superiore al 18/21% e quindi capace di stimolare l’economia reale, ha conquistato finora circa quaranta Stati, dalla Serbia alla Lettonia, da Hong Kong alla Russia, con risultati non compiutamente omogenei pur se interessanti.
Operiamo alcuni esempi. La “Flat Tax” è stata adottata da nazioni già appartenenti al blocco sovietico (Russia, Ucraina, Estonia, Slovacchia, Romania, Bulgaria, Ungheria, Repubblica Ceca, Albania), i cui rudimentali sistemi fiscali sono transitati con estrema facilità dallo statalismo comunista a un modello tributario così semplificato. Anche la Polonia, da circa un decennio, ha abbandonato il metodo progressivo, adottando l’aliquota unica al 19%. Dal 2004 ad oggi, la sua crescita è stata impetuosa fino a raggiungere, con un balzo totale di +46% di PIL, la vetta di una delle economie più robuste e solide dell’intera Unione Europea.
Sembrerebbe tutto molto agevole, ma così non è. Infatti, rimane ovviamente più complesso e denso di criticità un eventuale passaggio alla “tassa piatta” da parte di Stati da sempre gravitanti nell’orbita occidentale e altamente industrializzati dato che, un drastico calo nel gettito fiscale complessivo, non potrebbe essere sostenuto da economie, quale quella italiana, con debiti pubblici elevatissimi. Questo non significa, però, che non se ne debba discutere. In Gran Bretagna e Spagna, ad esempio, a titolo sperimentale è stata introdotta la tassa unica per un biennio in determinati settori, come il mercato del lavoro, nell’attesa di poterne verificare benefici e svantaggi.
In Italia, i critici della “Flat Tax”, per la verità soprattutto a sinistra, sostengono che questo sistema contenga di per sé delle intrinseche iniquità poiché avvantaggerebbe alcune fasce di popolazione a scapito di altre e, ciò, è sostanzialmente vero ma, d’altro canto, bisogna pur riconoscere che un siffatto regime tributario avrebbe in sé le potenzialità di eliminare, o quantomeno di ridurre, l’evasione e l’elusione fiscale.
Come pure bisogna riconoscere che l’Europa nel suo insieme è in grave sofferenza per un eccesso di spesa pubblica, per una fiscalità troppo elevata, per una burocrazia soffocante, per mercati del lavoro spesso iper-regolamentati e, “dulcis in fundo”, per la sua moneta unica la quale, è di tutta evidenza, può andare bene per alcuni Paesi e non per altri e, comunque, non deve essere obbligatoriamente l’unità di misura monetaria valida uniformemente per Stati con storie ed esigenze diverse.
Soprattutto, non può andare bene per l’Italia che si trova sull’orlo della bancarotta!
E intanto le nostre tasse, invece di diminuire, aumentano di gran carriera e non solo negli importi, ma anche nelle denominazioni: ICI; IMU; IUC, TASI, TARI, TARSU; ci mancano solo CIP&CIOP o TOM&GERRY e il quadro sarebbe al completo cambiando, però, il titolo del presente editoriale.
Da “Fiat Tax” a “Fiant Taxes”! E furono le tasse, tante e troppe tasse!