Dal globale al locale e viceversa
Un sano realismo nell’impegno contro il declino
Caro Franco,
un articolo di Clemente Sparaco, che trascrivo qui di seguito quasi integralmente, dipinge un quadro fosco dell’Europa e dell’Italia, presi nel vortice di un moralismo impietoso nei confronti delle differenze tra gli esseri umani e tra le culture. In questo clima di neoliberismo imperante viene tacitato ogni sentimento di compassione e di misericordia. Chi non paga i debiti deve morire, si tratti di uno Stato debole, anche se a causa della propria storia e di antiche prevaricazioni, o di un imprenditore disperato o di un operaio che ha paura di spendere al supermercato i suoi 80 euro. Mi aiuti ad essere ottimista?
Pier
“In ambito economico, l’inflessibilità è brandita come sinonimo di rigore, di trasparenza di bilancio e di efficienza. Un sistema economico produttivo, che sappia guardare al futuro e prepararlo, deve essere inflessibile (ad esempio contro l’evasione fiscale). All’opposto, la flessibilità introduce una variabile che rischia di scompaginare il quadro con elementi di disordine finanziario e morale. Dietro di essa si nasconde il cancro economico del debito pubblico, il difetto di fondo di un pareggio di bilancio eluso, il non rispetto di quei parametri che sono diventati la linea nemmeno tanto sottile che separa i virtuosi dagli inottemperanti, gli impeccabili dai sanzionabili, i vincitori dai vinti.
L’inflessibilità regola il rapporto tra gli Stati e gli individui, ingenerando una nuova intolleranza che non ci si arrischia a definire tale. I mercati, le burocrazie, la finanza non concedono dilazioni. Guai agli Stati che vi dovessero incorrere! Sono come appestati economici verso cui adottare un protocollo di isolamento. Pressioni di carattere morale, politico, economico, finanziario, sono, quindi, lecitamente concesse ed esercitate. Manovre speculative sono avviate chirurgicamente ad estirpare il bubbone maligno della morosità. La sovranità di quei Paesi è sospesa e popoli interi sono diffidati o resi sudditi di altri in attesa che saldino il conto.
E questo inesorabile meccanismo si ripete all’interno degli Stati. Verso chi non paga nessuna pietà! Sei “un contribuente da vessare, e della peggior specie: sei uno sporco evasore. Sei un ladro. Sei un bastardo. Poco importa se hai dichiarato tutto, ma non avevi i mezzi per pagare, per poter mangiare e mandare avanti l’attività. Rimani un rifiuto della società. Per la massa sei un delinquente. E ti meriti la gogna, ti meriti la fame. I suicidi per debito si moltiplicano e un’inquietante contabilità viene aggiornata ogni giorno sui quotidiani. Ma non basta, perché la stessa inflessibilità è ingiunta ai giovani lasciati inattivi e senza speranza, ai pensionati sospinti al limite della sopravvivenza, ai piccoli risparmiatori espropriati dei risparmi di una vita.
In questo mondo, in cui l’unità di misura della purezza è la capacità di partecipare al gioco consumistico, la libertà è ridotta ad un carrello della spesa da riempire in un supermarket. Il pensiero neoliberista classico, che la fa da padrone, richiede la flessibilizzazione del lavoro, la privatizzazione per assecondare i mercati e la totale deferenza verso il capitale finanziario che utilizza l’euro e che vuole a capo dei governi politici che si adattino ad essere pedine di un gioco più grande di loro e dei Paesi che dovrebbero rappresentare.
Quanto alla morale, essa non è nulla più ormai che la disposizione del consumatore pronto a cogliere le opportunità del momento, i saldi di fine stagione. Non contano i valori e i credo inflessibili sono arnesi disutili ed ingombranti: niente più remore o principi, nessun sacrificio e nessuna ribellione alle ingiustizie, nessuna rottura dell’omertà indifferente. Tutto va bene, purché, si circoli e si compri non indugiando a considerare i volti né curandosi degli sguardi incerti. Gli uomini sono atomi di consumo senza patria, senza memoria e senza identità.
Non c’è contraddizione, quindi, se nell’Europa di oggi si difenda l’autodeterminazione della donna e si seppelliscano i feti abortiti fra i rifiuti speciali, si difenda il diritto dei gay al matrimonio e si attui una campagna iconoclasta e distruttiva contro la famiglia naturale, contro la sessualità etero, ci si mostri tolleranti verso tutte le religioni, ma ci si trasformi in violenti, repulsivi, e blasfemi nei confronti del Cristianesimo, si proclamino solennemente i diritti inviolabili dei rifugiati e dei richiedenti asilo e si dimostri – come ha scritto Vittorio Feltri – “una gelida insensibilità verso i poveri del Sud”, verso i morti di Lampedusa o di Pozzallo.
Irretita nella sua logica tecnocratica l’Europa è un mero sistema di convenienze, un’accozzaglia burocratica, dominata da un egoismo tanto inflessibile quanto crudele.”
Poiché con Benedetto Croce “non possiamo non dirci cristiani”, diciamo anche che “non possiamo non essere d’accordo” con Sparaco, tanto più che egli sviluppa una tesi che riassumerei così: l’Europa, area del mondo in cui storicamente si è combattuta e vinta la battaglia per la tolleranza, oggi è diventato il luogo in cui trionfa l’intolleranza, resa apparentemente accettabile con la veste dell’inflessibilità, sinonimo di rigore e di efficienza, almeno in ambito economico.
Dimentica però Sparaco, forse perché troppo preso dall’ideologia, che l’intolleranza dal piano economico trasborda oggi senza soluzione di continuità verso il piano etico e diventa autorizzazione autoreferenziale alla deresponsabilizzazione fino alla mascalzonaggine, che riscontriamo inequivocabilmente sia sul piano individuale che su quello politico e istituzionale, locale e generale. E qui sta una delle ragioni della crisi strutturale attuale e delle difficoltà di uscirne in modo rapido e non troppo doloroso. C’è infatti da chiedersi come sia possibile unire le forze e mettere a frutto le potenzialità di futuro se le cosiddette classi dirigenti a tutti i livelli danno a vedere di saper solo guardare al particulare, denigrare gli avversari e appunto elevare l’intolleranza a criterio guida sia delle scelte individuali che di governo della cosa pubblica. E non mi si dica che non è questo l’aspetto più evidente dello spettacolo cui siamo costretti ad assistere.
Debbo fare anche una seconda osservazione. Ci si può lamentare, e con giustificata enfasi, della cattiveria del mondo economico e in particolare di quello finanziario, e si può condannare il liberismo, il consumismo e ogni forma di sfruttamento che vi sia connessa, ma questo non può in alcun modo giustificare l’accettazione, che normalmente accompagna questo tipo di condanne, delle mille forme di clientelismo, pietismo, buonismo, che hanno trasformato l’ambito pubblico nel ricettacolo di ogni condizione, escluse quelle che garantiscono la rispondenza dell’ufficio al compito, con tanto di valutazione e di eventuali provvedimenti conseguenti. Parlo, se non si fosse capito, del diritto di ognuno di avere servizi che funzionano.
Caro amico, mi risulta dunque molto oneroso aiutarti ad essere ottimista. Posso solo dirti che mi piacerebbe che fossimo capaci di riscoprire il senso e la forza del principio latino cui si ispiravano i padri del nostro Rinascimento, da Leon Battista Alberti a Giordano Bruno, dell’homo faber fortunae suae. Fiducia nella capacità nostra di determinare il nostro destino, cioè di riappropriarci del diritto al futuro, qualunque sia la nostra condizione, e dunque di poter esercitare quel diritto-dovere alla responsabilità che dovrebbe diventare anche intolleranza, non certo verso le differenze di idee e di condizione sociale, religiosa e culturale, ma verso il privilegio, l’arte di approfittarsi, la sopraffazione e tutte le forme di mascalzonaggine che ci inquinano la vita.
Visto che non possiamo non dirci cristiani, come riconosceva il laicissimo Don Benedetto, traiamone le conseguenze e riconosciamo la nostra innata propensione al peccato. Di fronte a tale realtà Gesù Cristo c’invita a pregare il Padre comune di non indurci in tentazione. Ma, poiché la tentazione permane, cerchiamo almeno di distinguere tra il sacrosanto impegno contro i mascalzoni e la cosiddetta “morale del cocomero”, descritta da un noto parlamentare come l’atteggiamento di colui che ha la villetta abusiva al mare, la pensione da falso invalido, il figlio sistemato in un ente inutile e si lamenta della casta politica. Non è questa la morale tua, mia e dei nostri lettori, ma qualcuno la casta politica deve avercela messa lì dove sta. Siamo o no in democrazia?