Dal globale al locale e viceversa
Beni culturali: bisogna avere il coraggio dei propri fallimenti
Caro Franco,
Philippe Daverio, in una recente intervista, ha lanciato una proposta amara e provocatoria. Esiste, secondo te, un’alternativa?
Pier
“Nessuno ha un progetto per il Paese che vada oltre il prossimo biennio. Nessuno immagina l’Italia fra trent’anni. In realtà non c’è più nemmeno una élite che abbia la credibilità per farlo. E così continuiamo a considerare i nostri tesori e i nostri beni culturali come elementi geografici da sfruttare. Cioè roba che il passato ci ha donato, che sta lì, ma non ne capiamo il destino. Lasciamo il Colosseo in balia dei finti centurioni, Pompei in mano ai venditori di arance e Piazza Armerina sotto l’assedio delle bancarelle. In Italia funzionano solo le quattro F: food, fashion, furniture e Ferrari. E senza eccessivi aiuti statali. La macchina dei beni culturali, invece, è spiaggiata: abbiamo un patrimonio superiore a quello di tutto il resto d’Europa e spendiamo un terzo della Francia, meno di un quarto della Germania. In centocinquanta anni l’Italia ha dimostrato di non saper accudire i suoi tesori. Quei luoghi sono o no la culla della civiltà europea? E allora chiediamo il commissariamento dei nostri beni culturali. Se ne occupi una Authority continentale. Bisogna vere il coraggio dei propri fallimenti.”
La provocazione di Philippe Daverio in realtà è un grido di dolore. Quello di chi è consapevole da una parte di ciò che rappresenta il nostro patrimonio culturale in termini di civiltà da preservare e di fonte possibile di sviluppo compatibile e occupazione qualificata, e dall’altra dell’inadeguatezza della politica rispetto ai doveri e ai compiti di salvaguardia e di contestuale valorizzazione.
Va detto che Philippe Daverio è un personaggio davvero singolare nel panorama italiano, perché è un intellettuale realmente competente che è anche capace di mettere la sua competenza al servizio della comunità. Basti considerare, al di là del suo lavoro di docente universitario, la sua attività di critico d’arte, di conduttore televisivo (Passepartout, Rai 5) e di opinionista, tutte attività improntate alla sensibilizzazione verso la tutela e l’uso intelligente del patrimonio culturale italiano.
Daverio è quello delle polemiche dure verso una classe dirigente piccina, che si rifugia spesso per incompetenza e calcolo in un miope provincialismo. È quello che polemizza con i genovesi isolazionisti che bocciano Renzo Piano perché è cosmopolita. È quello che, a proposito dell’idiosincrasia italiana per le capacità delle persone, dice: “Anche l’Italia recente non vuole persone autorevoli, ha accettato soltanto alcune versioni parodistiche dell’autorevolezza … Accettare la vera autorevolezza equivarrebbe a dire, va bene facciamo saltare tutti i privilegi. Se le cose restano come sono, ogni area di incompetenza ha diritto a un suo spazio e l’unico nemico dell’incompetenza è, neanche a dirlo, l’autorevolezza, che genera diffidenza in tutti i campi della vita pubblica”.
Daverio insomma è l’intellettuale colto e civicamente armato che bolla l’epoca presente come età del conformismo, del banale elevato a sistema e della trashologia (la cultura del trash). È questo, ma è anche l’uomo d’azione che indica in una urbanistica sapiente dei beni paesaggistici, ambientali e architettonici – che per essere tale sappia anche diventare impresa turistica – la via del futuro per le nostre città e più in generale per il nostro paese. È l’inventore della proposta di Piano Marshall per i beni culturali del Mezzogiorno. È il fondatore del movimento Save Italy, protagonista di diverse iniziative, la più famosa delle quali è la contestazione riuscita della discarica che si voleva realizzare nei pressi di Villa Adriana a Tivoli.
Dunque, contro la distruzione dell’ambiente, contro l’urbanistica selvaggia, contro l’incuria, la sciatteria e l’insipienza, si può fare molto. Allora dico no, il commissariamento non è la via risolutiva per accudire i nostri tesori. La via è la coscienza civica, l’etica della responsabilità e l’intelligenza politica che diventano sistema di governo delle città e della nazione. Si potrà sperare che non resti solo una speranza? Anche nel dramma di questa lunga crisi che ci morde e ci fa male dobbiamo amaramente constatare che non sono molti i fattori incoraggianti in direzione di una vera svolta. E però non si può e non si deve dire “addio alle armi”.
D’altronde è lo stesso Philippe Daverio che ci indica almeno una possibilità. Nel 2013, alla domanda se come cittadini possiamo fare qualcosa, egli infatti rispondeva così: «Io penso di sì, bisogna fare fortemente i provocatori. Bisogna provocare reazioni». Vedi allora, caro amico, cosa ti scrivo e ti dico: io ho passato una vita a cercare di dimostrare, con le elaborazioni strategiche e i fatti, che una politica degna di questo nome con al centro la salvaguardia e la valorizzazione dei beni culturali e ambientali legata al turismo è effettivamente possibile.
Ma io so, e anche tu sai, che a livello generale così come a livello particolare, nazionale o locale, le forze che si scatenano contro chi lavora sul piano della positività sia delle prospettive che delle soluzioni sono potenti e spesso vincono, perché gli interessi particolari il più delle volte sono più forti delle visioni che si fondano sul bene comune. Sia in Italia che ad Orvieto abbiamo bisogno di una svolta, anzi, di una rivoluzione nel modo di concepire e di praticare la politica e in essa la politica della cultura. Niente chiacchiere, ma visione strategica, progetti, qualità, intelligenza, rigore = soluzioni vere.
Perciò ti giro la domanda: “Che dici, il nostro destino sarà quello indicato da Philippe Daverio?”
La provocazione di Philipe Daverio, a prima vista, sembra totalmente assurda; lo sberleffo di un intellettuale che non si sente, e non è, del tutto italiano. Eppure essa contiene un messaggio: gli Italiani, per quanto vogliano sperare e darsi da fare, posseggono una ricchezza che non sono in grado apprezzare e valorizzare, perché non sono civilmente all’altezza delle civiltà che hanno prodotto quei beni. Cioè gli Italiani di oggi non sono degni delle civiltà etrusca, romana, medievale e rinascimentale. Si sono imbolsiti, avviliti, corrotti, involgariti. La storia italiana degli ultimi tre o quattro secoli si è risolta in una serie di tentativi maldestri di imitare le potenze nazionali europee. C’è una considerazione di Winston Churchill che raggela il sangue per quanto è giustificatamente offensiva: “Gettare un esercito di un quarto di milione di uomini, comprendente il fior fiore della popolazione maschile italiana, su uno sterile lido distante duemila miglia dalla patria, contro l’opinione del mondo intero e senza controllo dei mari e quindi, in questa situazione, imbarcarsi in quella che può essere una serie di campagne contro un popolo ed in regioni che nessun conquistatore in quattromila anni ha ritenuto che valesse la pena di sottomettere, è un rendersi ostaggio del destino che non ha un parallelo in tutta la storia.” E l’avventura dell’Africa Orientale è solo una delle sciagurate avventure italiane. Perciò tendo a pensarla come Philippe Daverio: prendiamo atto che c’è nel mondo chi sa fare molte cose molto meglio di noi e affidiamoci a loro. E limitiamoci alle Ferrari, alle scarpe e agli abiti ben fatti, ai vini e ai piatti gustosi, ai film intelligenti e poco costosi, ai golfini di cashmire di Brunello Cucinelli.