Dal globale al locale e viceversa
Ma il lavoro è riscatto o maledizione?
Caro Franco,
ci avevano insegnato al catechismo che i maschi avremmo dovuto lavorare col sudore della fronte e le femmine avrebbero dovuto partorire con dolore. Tutto ciò perché i nostri progenitori, due scimmie che camminavano sugli arti inferiori e avevano il cervello troppo evoluto per evitare di chiedersi che ci stavano a fare al mondo, avevano fatto perdere la pazienza al Padreterno. In effetti, se, duecentomila anni fa, quelle due scimmie se ne fossero state buone nella Rift Valley africana, non ci sarebbe né il lavoro né il parto cesareo. Ma poi ci hanno insegnato a scuola che l’Italia è una repubblica fondata sul lavoro e che il lavoro è bello e guai a chi non ce l’ha. Ci hanno anche insegnato che partorire è un optional e che alla donna che non se la sente di vivere in castità, né di farsi sterilizzare, né di accettare il piccolo disturbo del cesareo, ci pensa la mutua.
Chi, come me, cerca di conciliare la Bibbia, il libro più stampato nel mondo, con la Costituzione più bella del mondo rischia la schizofrenia. Per fortuna, tenta di metterci una pezza Diego Marani, collaboratore del Sole24ore (Lavorare manca, Bompiani, Milano 2014). Guarda un po’ che scrive e dimmi la tua, ma ti avverto che se cerchi di far quadrare tutto, questa volta m’incazzo.
Pier
“Lavorare manca, anche a quelli che lavorano, perché il lavoro non è mai come lo spiegano a scuola, come lo immaginiamo da fuori, non è mai la conquista della libertà ma l’inizio di un’altra cosa, che più propriamente non si chiama neppure lavoro bensì fatica e che fa tutt’uno con la vita. Non per nulla nei nostri dialetti, che sono le lingue della verità, lavorare si dice faticare. Allora forse il problema è tutto qui, è solo una questione di lingua. L’Italia è una repubblica fondata sulla fatica, così tutto quadra. Così si spiega perché è tanto difficile trovarlo il lavoro, e farsi pagare il giusto, e poi conservarlo e ancora di più amarlo. È su questa fatica collettiva che poggia la nostra società e su tutta l’umiliazione che ne deriva. Ma allora sarebbe stato più onesto dircelo subito e non prenderci in giro con questa storia del lavoro che nobilita l’uomo e con tutte le altre menate di cui ci hanno infarcito il cervello fin da bambini. La maestra a scuola ci insegnava la poesia di Gianni Rodari, quella sugli odori dei mestieri che dice:
Io so gli odori dei mestieri: / di noce moscata sanno i droghieri. / sa d’olio la tuta dell’operaio, / di farina sa il fornaio, / sanno di terra i contadini, / di vernice gli imbianchini, / sul camice bianco del dottore / di medicine c’è buon odore. / I fannulloni, strano però, / non sanno di nulla e puzzano un po’.”
Ecco il tuo trabocchetto, una sfida al contrario: apparentemente scoraggi un eventuale tentativo di giustificazione razionale di una realtà irrazionale ma in verità vuoi farmelo fare per avere così il destro di darmi addosso con l’accusa di razionalismo e costruttivismo cieco. Va bene, mi fermo qui, anche perché sennò, qualora ci fosse ancora qualche coraggioso disposto a leggerci, rinuncerebbe e non ci proverebbe mai più.
Dunque aggirerò il trucco e non razionalizzerò mentalmente una realtà irrazionale, e però non rinuncerò con questo a dire la mia senza timori e senza peli sulla lingua. Mi pare che il tema che proponi di discutere sia la natura, il senso e la realtà del lavoro. Partiamo allora dall’idea stessa di lavoro, per arrivare poi alla realtà del lavoro, anzi piuttosto alla sua irrealtà, e infine ai compiti della politica. Naturalmente senza fare un trattato.
L’idea di lavoro. Dalla Bibbia alla civiltà greca e per certi versi fino ad oggi c’è una linea svalutativa dell’idea di lavoro: la perdita dell’innocenza costringe gli uomini a guadagnarsi il pane con il sudore della fronte; l’uomo libero è tale in quanto non costretto dalle necessità pratiche, per le quali non a caso ci sono i servi e gli schiavi; l’otium è dedizione alla meditazione, alle arti e all’amicizia, il negotium è la faticosa necessità del vivere; fino all’idea che il lavoro è fatica e che “lavorare stanca”. Ma poi la civiltà industriale moderna, con le sue elaborazioni culturali e politiche, rovescia questa concezione e fa diventare il lavoro un’espressione della nobiltà dell’uomo, ciò che lo distingue in quanto costruttore della convivenza civile dell’umanità, ciò che lo riscatta anche dal peccato, gli permette di vivere con dignità, di costruire una famiglia e di assumere ruolo e responsabilità sociale. Un salto culturale decisivo, dal quale è difficile immaginare che si possa tornare indietro, anche quando la realtà del lavoro, come oggi, di fatto ne indica la natura problematica, di mutamento senza garanzie e di bisogno difficile da soddisfare.
La realtà del lavoro. Processi molto complessi del mondo contemporaneo, in particolare nell’occidente capitalistico, hanno trasformato il lavoro da opportunità di riscatto e di successo in guerra guerreggiata di sistemi e sottosistemi che nei fatti schiacciano individui, gruppi sociali e perfino nazioni. Con la conseguenza che il futuro appare incerto non solo per le giovani generazioni, ma anche per gli adulti che perdono lavoro e non vedono né nell’immediato né in prospettiva la possibilità di una soluzione. Il lavoro, da diritto scritto nelle costituzioni e retoricamente proclamato dai professionisti della persuasione, diventa così un miraggio o la prospettiva buia di una vita senza speranza. Di qui la necessità di una reazione.
I compiti della politica. Ecco, la reazione deve essere della società tutta, ma in essa in particolare di chi ha un compito generale di guida, cioè della politica, naturalmente a tutti i livelli. Indubbiamente in questo senso ci sono segnali interessanti nel mondo, in Europa e anche in Italia. Per esempio, la crisi prima finanziaria e poi economica che viviamo ormai da almeno sei anni ha spazzato via le teorie neoliberiste radicali che avevano trasformato il mercato in un dio onnisciente e onnipotente a cui semplicemente inchinarsi. Oggi l’idea che la libertà è automaticamente garantita dal mercato è abbandonata proprio dai liberisti, che approdano ad una concezione più meditata e realistica per cui le differenze sociali sono sì garanzia di libertà individuale e politica, ma quando diventano eccessive rischiano di trasformarsi nel suo contrario, per cui diventa essenziale un potere politico equilibrato, coraggioso e indipendente. Cito l’elaborazione in campo liberista perché più indicativo dei mutamenti politico-culturali in corso rispetto anche alle correnti della sinistra di vario orientamento, che appare oggettivamente in ritardo, non avendo ancora elaborato strategie efficaci che coniughino l’esigenza di uguaglianza con quella di libertà nelle condizioni determinate dalla società degli individui. I compiti della politica non si sono attenuati, anzi, si sono accresciuti e moltiplicati.
Ma il sistema non funziona, e una classe dirigente all’altezza delle sfide di oggi stenta a venire avanti. I partiti sono morti o moribondi, nuove forme di aggregazione nascono e muoiono nel giro di una stagione breve, processi di selezione di idee e persone appaiono più frutto di improvvisazione che di meditate strategie condivise. Siamo nel bel mezzo di cambiamenti profondi, senza però che se ne comprenda ancora bene la direzione. Il lavoro, in quantità, caratteri e qualità, dipenderà anche dal tempo e dal modo in cui si risolveranno queste essenziali questioni. Ma non si può attendere, non ci sono due tempi, bisogna cambiare in corsa. Un compito di tutti.
Hai delineato, caro Franco, un quadro chiaro e condivisibile del tema del lavoro nel mondo attuale, visto negli aspetti culturali, economici e politici. Ma poiché la mente umana, oltre a progettare e auspicare, ha anche l’attitudine a profetare, cioè a tentare di leggere nella realtà presente i prodromi del futuro, non posso rinunciare a una osservazione inquietante. C’è una parte dell’umanità che ha fame e c’è una parte che mangia troppo. E da qualche anno c’è il web che spiattella ovunque questa realtà. Perciò i popoli che hanno fame e che aspettano da centinaia di anni di poter mettere insieme il pranzo con la cena si muovono verso le aree del pianeta dove si mangia troppo. Africani e asiatici affamati si assiepano nell’Africa settentrionale e puntano a Nord. L’Italia è l’approdo meno scomodo per l’accesso all’Europa. Ne arrivano ogni giorno di più e non c’è soluzione, perché le soluzioni drastiche sono rese impossibili dai princìpi etici che si sono radicati nell’Occidente dopo secoli di guerre e di stragi. Vale a dire che l’Occidente non può sterminare i migranti, anche se possiede i mezzi per farlo, perché tradirebbe la propria identità e perderebbe il rispetto di se stesso. Quindi credo che dobbiamo prepararci a dividere in Italia il pane, e non solo il pane, coi migranti. Anche perché gli aiuti ai Paesi poveri finiscono troppo spesso nelle tasche di politici criminali e dei mercanti di armi. Se i nostri progenitori fossero rimasti nella Rift Valley africana (che la Bibbia chiama eden) e si fossero contentati dei frutti, delle radici e dei vermi, che abbondavano da quelle parti, senza cedere alla curiosità (che la Bibbia chiama peccato originale) sarebbe stata tutta un’altra storia. Forse sto farneticando; ma gli sbarchi continuano. Li fermiamo col job act?