Che fine ha fatto il “codice etico del buon amministratore”? Nessuna. Ed eccolo qua di nuovo!
Caro Franco,
un paio di anni fa, il Centro Orvietano di Vita Politica Senatore Romolo Tiberi (COVIP), da te presieduto, redasse e pubblicò un “codice etico del buon amministratore comunale”. Lo scopo del COVIP non era quello di predicare la castità ai passeri, ma di puntualizzare dei valori teoricamente da tutti condivisi e indispensabili per il buon andamento di ogni amministrazione pubblica. Di quei valori, in questa strana campagna elettorale, che vede impegnati quasi duecento candidati, mi sembra che si parli poco o punto. Che ne dici di ricordarli?
Pier
Caro Pier,
sì, sono d’accordo, ritengo anch’io senz’altro opportuno e urgente riproporre all’attenzione di tutti la nostra iniziativa del dicembre 2012, quando decidemmo unanimemente come COVIP, a seguito di una riflessione corale molto approfondita, di elaborare e diffondere “Il codice etico del buon amministratore comunale”. Le ragioni dell’opportunità e dell’urgenza di rilanciare oggi lo stesso tema in fondo sono le stesse di allora: se i comportamenti di chi assume incarichi pubblici si uniformassero a canoni etici effettivamente condivisi e praticati non si arriverebbe alle condizioni difficili, generali e particolari, che invece siamo costretti a vivere. Dunque sarebbe il caso che ciò finalmente si facesse in ogni dove.
Noi ci siamo assunti il compito di suggerire una certa soluzione. Se altri ne hanno di migliori – lo dicemmo già allora – avanti, non temiamo la concorrenza. Il fatto che desta preoccupazione, infatti, non è l’eventualità del dissenso, ma che di cose come queste non si discute, ché anzi si evita rigorosamente di pensarne non tanto l’importanza quanto l’esistenza stessa.
Si evitano le cose troppo impegnative: si va alle elezioni europee, ma si preferisce l’acchiappavoti del popolare facile piuttosto che lo sforzo di proporre una coraggiosa idea di nuova o altra Europa; analogamente, sul piano locale non emerge, come sarebbe invece necessario, l’assunzione di responsabilità rispetto a prospettive di fondo, scelte forti, valori discriminanti.
Riproporre l’attenzione sul codice etico può avere dunque un significato in quanto diventi oggettivamente un esplicito invito a chi si è proposto quale possibile amministratore comunale a dire se condivide o no, ed eventualmente perché no, quanto da noi indicato. Allora diciamo che attendiamo risposta. Poi naturalmente diremo ancora la nostra.
Franco
IL CODICE ETICO DEL BUON AMMINISTRATORE COMUNALE
(COVIP, dicembre 2012)
LE RAGIONI DELL’INIZIATIVA
Si tratta di una proposta nello stile della nostra Associazione, nata per stimolare il dibattito e migliorare il clima politico-culturale della comunità in cui si svolge la quotidianità della nostra vita.
Con essa non vogliamo né fare prediche né dare lezioni, ma semplicemente rendere evidente che chi si assume l’onere, che è anche un onore, di rappresentare i propri concittadini, si assoggetta di fatto non solo alle leggi, ma a determinati principi di comportamento che è bene rendere espliciti.
Riteniamo infatti che non vada mai dimenticato che l’attività di governo trova la propria ragion d’essere nel rispetto degli orientamenti e degli interessi della comunità secondo le regole della democrazia. E gli eletti ne sono gli interpreti, i custodi e i realizzatori. Pertanto sul loro operato si deve poter dare un giudizio pubblico serio e fondato. A questo serve il codice etico.
Sono undici principi, un endecalogo, che sottoponiamo all’attenzione dei singoli cittadini e delle forze organizzate (politiche, economiche, sociali e culturali) della città e del territorio perché, se lo ritengono giusto e utile, ne facciano oggetto di riflessione. Per parte nostra siamo disponibili e interessati ad un dibattito pubblico che si sviluppi in serenità, profondità, costruttività.
IL CODICE ETICO
1. Gli amministratori comunali agiscono esclusivamente nel pubblico interesse. Evitano scrupolosamente di partecipare alla formazione di atti che possono recare vantaggi a se stessi, ai familiari e agli amici, anche quando la legge non sancisca l’incompatibilità.
2. Gli amministratori comunali, non solo rispettano le leggi, ma improntano le loro decisioni al principio della trasparenza e agli obiettivi dell’efficienza e dell’efficacia.
3. Gli amministratori comunali si impegnano a combattere ogni comportamento discriminatorio e a vigilare perché siano rispettati i principi di uguaglianza e pari opportunità tra i cittadini. Si impegnano in particolare a rimuovere gli ostacoli che scoraggiano o emarginano i capaci e i meritevoli.
4. Gli amministratori comunali conferiscono agli atti istituzionali non solo l’impronta della risposta pertinente ed efficace ai bisogni del presente, ma quella della valorizzazione/creazione delle opportunità per il futuro. In particolare considerano il patrimonio pubblico un bene di tutti e lo utilizzano sapientemente a vantaggio esclusivo della comunità.
5. Gli amministratori comunali non devono mettersi nella condizione di essere debitori di professionisti e di imprese che possono aspirare a incarichi e appalti comunali. Devono vigilare che altrettanto facciano i dirigenti comunali.
6. Gli amministratori comunali rispettano scrupolosamente la legge. Quando adottano atti discrezionali spiegano chiaramente ed esaurientemente nella motivazione degli atti stessi perché la loro scelta è la più conforme all’interesse pubblico.
7. Gli amministratori comunali esigono da se stessi una preparazione adeguata ai compiti che assumono.
8. Gli amministratori comunali esigono dai dirigenti e dai dipendenti una pari condizione; non s’intromettono nelle competenze gestionali dei dirigenti, ma esigono da loro informazioni tempestive e complete; forniscono loro indirizzi politici chiari e ne controllano la puntuale attuazione.
9. Gli amministratori comunali forniscono ai cittadini, sia di propria iniziativa che a richiesta, tutte le informazioni utili a mantenere e rafforzare la fiducia nelle istituzioni e la certezza della loro trasparenza. Evitano scrupolosamente di fornire informazioni in violazione del segreto d’ufficio e delle norme sulla tutela dei dati personali.
10. Gli amministratori comunali che decidono, nel corso del loro mandato, di cambiare linea politica ne spiegano pubblicamente i motivi e assumono chiaramente una posizione di maggioranza o di minoranza, ai fini del corretto funzionamento della dialettica democratica.
11. Gli amministratori comunali osservano comportamenti esemplari per la civile convivenza, non solo rispettando le norme giuridiche, ma anche attenendosi alle regole della buona creanza, consapevoli di essere particolarmente osservati e giudicati dai cittadini.
… al globale
Un tema di cui si continua a discutere anche oggi, come nel Settecento. E allora, il libero pensiero per la società è una risorsa o un rischio?
Caro Pier,
in questo clima caldo di scontro elettorale non mi sento di proporti argomenti dal sapore direttamente politico. Mi piace piuttosto sentire come la pensi su una questione diciamo politico-culturale classica, quella della natura e della funzione del libero pensiero. Se ne discuteva nel Settecento, con sullo sfondo, da una parte la crisi del decrepito e bigotto autoritarismo della monarchia francese e per contro l’ascesa della libera monarchia parlamentare inglese, e dall’altra il passaggio contestuale dalla cultura dell’obbedienza e dei doveri a quella della libertà e dei diritti di cui sarà massima espressione l’illuminismo. Ed è appunto di questa discussione che dà conto l’articolo di Massimo Firpo “Conseguenze del libero pensiero”, dedicato alla polemica tra l’allievo di John Locke Anthony Collins e Jonathan Swift e pubblicato sull’inserto cultura de “Il Sole 24ore” di domenica 20 aprile, che ti riproduco parzialmente di seguito. Ma se ne discute vivacemente anche oggi, come dimostrano le reazioni alla recente uscita sul tema del premier inglese David Cameron, che non si è limitato a riferire del “crescente potere curativo” della religione nella sua vita, cosa bella e legittima, ma ha sostenuto il primato morale e spirituale del cristianesimo rispetto alle altre religioni ed ha attaccato la “severa neutralità dello stato” rispetto alla religione cristiana, cosa al contrario discutibile essendo lui uomo di stato, garante della sua laicità. Questione seria dunque, ieri come oggi. Tu che ne dici?
Franco
“Fu quest’ultimo [Anthony Collins] a pubblicare nel 1713 un celebre Discourse of free-thinking, in cui teorizzava il diritto universale di pensare liberamente ed esprimere liberamente il proprio pensiero, negando l’esistenza di qualunque autorità morale, civile o religiosa che potesse arrogarsi il diritto di limitarlo o reprimerlo. In un’Inghilterra allora governata dai tories, quel libro di grande successo fu subito al centro di aspre polemiche che ne denunciavano il carattere eversivo nell’emancipare la ragione umana dai poteri di controllo e repressione tanto dello Stato quanto della Chiesa. Tra i critici più feroci fu Jonathan Swift, che pure era uno spirito libero, un giornalista corrosivo, capace come pochi di usare l’arma della satira, come farà poi nei suoi celebri Viaggi di Gulliver, e non certo un bigotto, nonostante il suo ruolo istituzionale nella Chiesa anglicana d’Irlanda in qualità di decano del Trinity College a Dublino. Lo dimostrano la sua feroce Tale of the Tub (Favola della botte), pubblicata anonima nel 1704, in cui egli non risparmiava battute al vetriolo contro le religioni rivelate e il clero (anglicano, calvinista o cattolico che fosse), e i suoi violenti attacchi contro i più accaniti presbiteriani, gli entusiasti, convinti di avere il monopolio della parola di Dio e pronti a scagliarsi contro chiunque non la pensasse come loro. E allora, perché Swift se la prendeva con Collins, pubblicando una sintesi parodistica del suo libro, definito come «una breve e completa sintesi di ateologia»? Lo faceva perché a suo giudizio, nutrito di rabbiosa avversione contro il partito whig, contro la sua cultura, contro il suo ottimismo antropologico, un conto era pensare liberamente e un altro dire pubblicamente quello che si pensava, se ciò rischiava di mettere a repentaglio l’autorità della Chiesa e dello Stato, e con essi l’ordine sociale. «Ogni uomo – scriveva – in quanto membro dello Stato dovrebbe accontentarsi di possedere le proprie opinioni in privato, senza confondere il prossimo o disturbare il pubblico». … Scrutinare i sacri testi non serve a nulla, affermava Swift, anzi è pericoloso, perché la religione si fonda sul mistero e non sulla ragione. Certo, da quest’ultima possono scaturire dubbi corrosivi, che in sé sono del tutto legittimi poiché la ragione stessa è opera di Dio, «purché io abbia cura di nascondere agli altri quei dubbi e faccia del mio meglio per dominarli, e purché essi non abbiano alcuna influenza sulla condotta della mia vita». Insomma, Swift era un conservatore così disilluso sulle virtù degli uomini da ritenere indispensabile che ci fossero autorità costituite che gliele imponessero. Di qui la sua insofferenza per quel blaterare di libero pensiero senza rendersi conto dei rischi che comportava, per quella fiducia nella libertà che rischiava solo di recidere le briglie che tenevano a freno i vizi degli uomini. …”
Il tema è di somma importanza perché va a toccare il nocciolo delle nostra angoscia esistenziale. Volenti o nolenti dobbiamo affrontare due quesiti: qual è il mio compito nella società in cui vivo perché essa sia felice, ammesso che la felicità sia possibile? Qual è la strada della mia salvezza individuale, ammesso che esista una possibilità di salvezza? Di fronte a tali domande, la libertà del pensiero ci offre soluzioni l’una con l’altra incompatibili, dal nichilismo per cui è diventato famoso Friedrich Nietzsche (ma superato in radicalità dal nostro Giacomo Leopardi) alla soluzione religiosa della fede in Dio e nell’immortalità dell’anima, contornate da mille altre forme di pensiero. Possono convivere le varie forme di pensiero e liberamente manifestarsi in una società organizzata senza minacciarne lo sfaldamento? A questa domanda l’ottimismo antropologico dei tipi come Anthony Collins (e Massimo Firpo) e il pessimismo antropologico dei tipi come Jonathan Swift (e David Cameron) rispondono, come abbiamo visto, in modo molto diverso. Carl Gustav Jung ha affrontato la questione dal punto di vista psicologico e ha riflettuto che l’illuminismo, che costituisce la sorgente feconda della civiltà democratica occidentale, ha smitizzato il divino e il demoniaco sostituendoli con la razionalità (arrivando perfino al culto della dea Ragione). “Ma la funzione psicologica a loro corrispondente non era stata liquidata, bensì cadde nell’inconscio, e a causa di ciò gli uomini si avvelenarono per un eccesso di libido che prima era investito nel culto dell’immagine divina. La svalutazione e la rimozione di una funzione così forte come quella religiosa, ha naturalmente notevoli conseguenze per la psicologia del singolo. Attraverso il riflusso di questa libido l’inconscio viene straordinariamente rinforzato, cosicché comincia ad esercitare con i suoi contenuti arcaici collettivi un potente influsso coattivo sulla coscienza. L’illuminismo si concluse notoriamente con gli orrori della rivoluzione francese. Anche attualmente viviamo di nuovo questa ribellione delle forze distruttive inconsce delle psiche collettiva. L’effetto è un massacro senza precedenti. È proprio ciò che l’inconscio cercava. La sua posizione era stata in precedenza rafforzata in modo smisurato dal razionalismo della vita moderna, che ha svalutato l’irrazionale e perciò ha fatto sprofondare la funzione dell’irrazionale nell’inconscio. Una volta che la funzione si trova nell’inconscio, agisce da lì in modo devastante e incontenibile come una malattia inguaribile, il cui focolaio non può essere annientato perché è invisibile.” Jung scriveva questo testo nel 1917, durante la prima guerra mondiale. Non sapeva che la sua teoria sarebbe stata confermata dai totalitarismi del ’900 e dalla seconda guerra mondiale. Non poteva sapere quel che avrebbe combinato la patria di Kant, di Hegel e di Marx e quel che avrebbero combinato le democrazie occidentali a Dresda, a Hiroshima e a Nagasaki. Perciò la posizione di uno spirito arguto, satirico e dissacrante come Swift, all’inizio ed ’700, può essere l’intuizione del contenuto dirompente dell’ottimismo antropologico e dell’indifferenza al fenomeno religioso. David Cameron, senza il talento e senza la libertà di Swift, esprime un pallido integralismo, l’unico che si può permettere uno statista inglese contemporaneo. Ma basta per allarmare i fedeli dello stato laico, che ha la sua carta dei valori e guai a chi la tocca. Ciò non vuol dire che l’integralismo religioso sia difendibile. Per amare Gesù Cristo non ci vuole alcuno sforzo, tanto è amabile, ma per credere in un regno che non è di questo mondo e operare di conseguenza, ci vuole una fede incrollabile. Ed è proprio dalla carenza di fede che dipendono i nefasti compromessi dei cristiani con il potere e la squalificazione dell’integralismo religioso. Che altro può dire, che altro può fare un piccolo e povero cristiano come me? Non può che pregare e lasciarsi cullare dalle onde del mistero. Sperando che il “naufragare in questo mare” sia non solo dolce, ma illuminante.