di Roberto A. Basili
Un contributo ad Angelo Ranchino.
Antonio Gramsci era stato eletto deputato alle elezioni politiche del 1924, stravinte dal listone liberal-fascista propiziato dalla legge Acerbo: una legge elettorale maggioritaria che, ad onor del vero, appare oggi “ecumenica” se messa a confronto con l’Italicum di Pitti Bimbo (alias Matteo Renzi). L’8 novembre del 1926 viene arrestato. Nel 1934, in seguito al grave deterioramento delle sue condizioni di salute, ottiene la libertà condizionata e ricoverato in clinica, dove passa gli ultimi anni di vita. Muore a Roma il 27 aprile 1937.
” Non ho mai voluto mutare le mie opinioni, per le quali sarei disposto a dare la vita e non solo a stare in prigione […] vorrei consolarti di questo dispiacere che ti ho dato: ma non potevo fare diversamente. La vita è così, molto dura, e i figli qualche volta devono dare dei grandi dolori alle loro mamme, se vogliono conservare il loro onore e la loro dignità di uomini“. (Antonio Gramsci, lettera alla madre, 10 maggio 1928)
In effetti uno dei temi centrali dell’opera di Antonio Gramsci è la libertà, che egli studia sia nel concreto dispiegarsi delle lotte degli uomini per migliorare la propria condizione, sia come libertà interiore, cioè l’ostinata capacità di continuare a pensare, pur minacciata dal “disgregamento delle forze intellettuali” a seguito delle privazioni del carcere fascista: vedi la metafora del “naufrago” e del “cannibalismo”.(Antonio Gramsci, lettera a Tania, 6 marzo 1933)
Conosco Angelo Ranchino quale giovane e brillante avvocato, nonché anima e stratega di Orvieto Libera che si accinge alla prova delle urne, e per questo mi resta difficile pensarlo quale “liberale di provincia”; certo che le sue liaison tra Gramsci e David Orsini fan tornare alla mente gli agrari nostrani degli anni ’50, più che i liberali.
Ed allora mi permetto di proporre al nostro “liberale” una sintesi della recensione di Benedetto Croce, costui sì liberale, a “Le lettere dal carcere” di Antonio Gramsci (Benedetto Croce, Quaderni della critica, III, 8, 1947).
Croce scopre Gramsci “Come uomo di pensiero egli fu dei nostri” e riscontra “apertura verso la verità da qualsiasi parte gli giungesse, scrupolo di esatezza e di equinimità, gentilezza e affettuosità del sentire” e aggiunge “noi altri, nel leggerlo, ci confortiamo di quel senso della fraternità umana che, se sovente si smarrisce nei contrasti politici, è dato serbare nella poesia e nell’opera del pensiero, sempre che l’anima si purghi e di salire al cielo si faccia degna, come accadeva al Gramsci“.
Forse per queste ragioni Antonio Gramsci è ritenuto uno dei più grandi pensatori del nostro Novecento ed è studiato nelle Università di mezzo mondo. Forse per le stesse ragioni è dimenticato in Italia e immeritatamente trascinato in questa polemica strapaesana.