La morte non fa più notizia, anzi, le stragi sono diventate “normali”. Che la tragedia arrivi dai barconi degli immigrati o dalla miniera turca, i quotidiani, perlopiù, inseriscono questi drammi nelle pagine interne. Ci si sta abituando alla morte: a quella da crollo lavorativo, a quella da catastrofe seriale di poveri disgraziati in cerca di speranza; e con l’abitudine, prolifica l’ipocrisia dell’emozione transitoria. Retorica? Solo belle parole? Puo’darsi sia così. Intanto, però, i morti da “pagina molto interna” non fanno più lettore né rumore, e le Tv lasciano solo uno stupore dovuto ed effimero.
E le Istituzioni? In Europa si contano gli euro, si fanno bilanci e si rilasciano pagelle di affidabilità economiche sui Paesi dell’Area; ma nulla l’Europa rende tangibile sul dramma degli immigrati, sulle emergenze ormai diventate consuetudine. Si parla di “letterine” che rimangono senza risposta o, addirittura, non arrivano, di Stati inermi e chiusi in se stessi, dove la parola “arrangiatevi” è sottintesa: è questa, allora, una politica che tutto crea e tutto distrugge. E’ una politica che si dice comunitaria senza calcolare le comunità, è quella della morte istituzionale dove il killer è la finanza e i mandanti sono gli egoismi di Stato diventati “istituzioni”. Il razzismo ha mille forme: questa ne è una.
E l’Italia cosa fa? E’ sempre la stessa, dominata dallo straniero e incapace di una sovranità vera e autorevole. Si battono i “pugni sul tavolo”, ma per finta. Le mani, in realtà, rimangono unite al corpo, e l’Europa fischia comunque il rigore, ma il solo che conosce: quello dell’austerità economica. Intanto la ponderazione moviolista, finta o reale, è una zattera dove affondano persone e sogni.
“Gli anni sono come le piramidi: contengono sempre qualche morto”, scriveva la poetessa Ada Merini. Ma vi sono anche i “sepolti vivi” nelle piramidi del potere: senza egiziani, ma con tanti indiani divisi in tribù.