«L’imposta di soggiorno completa, per ora, la dolorosa serie delle mazzate fiscali.»
Caro Franco;
Da questo giornale traggo la prima parte del lungo grido di dolore col quale la Federalberghi – Confcommercio della Provincia di di Terni ha reagito alla nuova imposta di soggiorno. Poiché sono uno dei consiglieri comunali che non si sono sottratti alla triste responsabilità di aumentare le tasse (comprese quelle che pago io) non posso garantire un commento obiettivo. Perciò affido gli albergatori alla tua saggezza.
Pier
“Un errore grave del Comune di Orvieto che colpisce le strutture ricettive, principalmente gli alberghi, già vessati da una applicazione ingiusta della TARES-TARI e dell’IMU. Il comune di Orvieto sembra aver perso di vista che gli alberghi sono imprese che devono far quadrare il conto economico e che, se vengono caricati di costi impropri, inutili e controproducenti non possono reggere alla crisi e non possono continuare a garantire i posti di lavoro. Inoltre gli alberghi sono infrastrutture del territorio che garantiscono lo sviluppo turistico e, in caso di chiusura, non sono facilmente sostituibili e proprio per questo vanno difesi e non tartassati.”
È da quando, all’inizio del 2011, si diffuse la notizia che il governo avrebbe concesso ai Comuni la facoltà di istituire l’imposta di soggiorno che Federalberghi – Confcommercio ha proclamato lo stato di agitazione per protestare contro una tassa che ritiene iniqua e controproducente. Da allora la protesta è presente ogniqualvolta un Comune la istituisce o ne vuol decidere l’aumento. Basta girare un po’ nel web per rendersene conto: dalle grandi alle piccole città, da Venezia a Firenze a Roma, e naturalmente ad Orvieto.
È una protesta giustificata? Non saprei rispondere in modo secco con un sì o con un no. So che questa imposta c’è in gran parte dell’Europa e, come ho detto, dal 2011 ad oggi è stata istituita in tante nostre grandi e piccole città. So anche che gli alberghi quando chiudono non chiudono per questo. So che i flussi turistici sono scarsissimamente influenzati dalla sua presenza o assenza. Da questo punto di vista credo si possa sensatamente sostenere che la protesta sotto questo profilo è una esagerazione tipicamente italiana.
Non ritengo invece esagerata l’attenzione che viene posta da Federalberghi all’impiego finalizzato delle risorse che derivano ai Comuni dalla sua applicazione: non è davvero la stessa cosa se ci sono o no i servizi igienici e naturalmente se sono o no puliti ed efficienti, se la città è o no ordinata e accogliente, se c’è o no adeguata informazione, ecc., cioè se c’è o no il minimo che si richiede ad una città turistica.
Né in generale è esagerata la protesta contro i livelli di tassazione dei singoli, delle famiglie e della aziende, che sono da tempo diventati, essi sì, insopportabili e controproducenti. Il fatto è però che per anni e anni si è governato e amministrato, con l’acquiescenza di quasi tutti, compresi gli albergatori, senza pensare al futuro. E ora se ne paga lo scotto, anche con la tassa di soggiorno.
Si può fare in altro modo? Certo che sì! Naturalmente innanzitutto si può decidere di non istituire questa imposta, o laddove sia stata istituita, come ad Orvieto, di abolirla. Si può fare, anzi, ci sarà chi in occasione delle elezioni dirà che si deve fare perché ha ragione Federalberghi, oppure ci sarà chi dice che purtroppo si è stati costretti a metterla perché altrimenti non si sarebbe riusciti a chiudere il bilancio, e così cantando.
Ma vogliamo finalmente dire che questa come altre imposte e tasse sono il frutto di una lunga politica dello sguardo corto e della finanza allegra? E di conseguenza dire anche che finché non si cambia complessivamente rotta se togli una tassa devi trovare i soldi da un’altra parte o in alternativa non istituire o togliere o far deperire i servizi? Scusate, ma chi paga l’imposta di soggiorno? Non sono forse gli utenti, su cui viene regolarmente scaricata anche questa, come tutte le tasse indirette? E, in aggiunta, non è anche vero che comunque, imposta di soggiorno o no, tutta una serie di servizi che sono anche funzionali al turismo li paghiamo noi con soldi che escono dalle nostre tasche? Chissà, non è che sarà venuto il momento che ognuno tenti di ragionare in un modo un po’ diverso, senza prendersela con questo o con quello, ma cercando vie magari più lunghe e complicate e però forse più giuste e risolutive?
Insomma, senza farla ancora più lunga, c’è un’alternativa? Certo che sì! Un bel programma di sviluppo vero, organico, territoriale, di ampio respiro. Non ci sarà bisogno di imposta di soggiorno, né di livelli assurdi di tassazione, quando ci sarà un bilancio che funziona perché c’è un territorio ben organizzato e valorizzato, un’economia che tira in quanto si sanno mettere a frutto le potenzialità e le risorse; quando dunque ci sarà un turismo moderno, con servizi adeguati, una promozione qualificata ed efficiente, un’offerta che ci faccia entrare e stare nei piani alti dei flussi internazionali.
Però per fare così ci vorrà tempo, poche chiacchiere e tanti fatti, proprio perché si è perso tanto tempo e si è sprecata un’infinità di occasioni. Perciò bisogna cambiare rapidamente mentalità e fare del turismo e dell’ospitalità una vera industria. Ciò che riguarda sia chi governa che chi è governato. Sarà un lavoro non facile e non di breve periodo. Ammesso che lo si voglia fare sul serio.
… al globale
«La cucina è fatta di fatica, non di insulti. I talent creano illusioni e fanno danni»
Caro Pier,
sono stato tentato di proporti un tema del momento politico: la riforma delle province o la riforma del senato. Ma ho immaginato presuntuosamente la tua risposta (magari sbagliando), e mi sono freddato e fermato. Ho deciso perciò di “ripiegare” su un tema meno impattante e più “gustoso”: la cucina vista dallo chef Massimiliano Alajmo per la penna di Vittorio Zincone sul settimanale “Sette” del “Corriere della sera”. Un punto di vista cólto e fuori dal coro, credo utile anche per i nostri ragazzi che si lasciano affascinare troppo facilmente dai miraggi della cucina facilotta e guadagnosa. Tu, che sei un cultore della materia, che ne dici?
Franco
“Massimiliano Alajmo, trentanove anni e tre figlie, è un cuoco ricercatore. È cresciuto tra i fornelli di famiglia e nel 2002 è diventato il più giovane chef della storia a ottenere le tre stelle Michelin.
Tre ristoranti, tre bistrot, un caffè. La sua famiglia ha un piccolo impero gastronomico. La madre è una cuoca sopraffina: «In questo momento ha deciso di cucinare tutto senza grassi». Il fratello Raffaele è la faccia organizzativa della medaglia Alajmo. Con lui ha frmato i suoi libri-manifesto In.gredienti e Fluidità. Massimiliano è un po’ filosofo e un po’ provocatore. Dichiara: «Il pasto è un’esperienza». E proprio mentre stai affilando le lame dello scetticismo, ti mette nel piatto un enorme osso tagliato in sezione con dentro il midollo rosa vivo, condito con erbette. Sorride: «Effetto Flintstones. Non ce l’ho con i vegetariani veri. Ma non amo le mode». Arriva una crema di patate con seppie, chiamata Cappuccino, e dice: «Sono anni che la cucino, ma ho capito solo da poco perché piace». Perché? «Perché suscita il ricordo dell’allattamento. Gioca con la memoria implicita». Il gioco è uno dei Leitmotiv dell’Alajmo pensiero. Ma lo è anche la fatica.
La tv buona maestra… «Qualche giorno fa su Discovery Channel ho visto una trasmissione dello chef Heston Blumenthal molto interessante».
Che cosa combinava Blumenthal? «Spiegava con ironia e competenza, con padelle e con prove scientifiche… l’uovo».
Qual è invece la tv cattiva maestra? «Quella delle trasmissioni che si travestono: in cui piatti e ricette in realtà servono per parlare d’altro».
Di che cosa? «Di competizione. Mostrano scorciatoie. Si illude il pubblico: gli si dice “puoi diventare un grande cuoco, puoi guadagnare, diventare famoso, scrivere libri. Ti basta sconfiggere un avversario davanti a una telecamera”. Mera esibizione».
Parliamo di MasterChef? «Anche, ma non solo. È la logica del Grande Fratello. L’audience è garantita. Ma anche i danni».
Quali danni? «Far passare l’idea che la cucina sia quella roba lì».
Tra i giudici ci sono chef e ristoratori. E i concorrenti effettivamente cucinano. «La cucina è fatta di odori, di profumi, non di insulti e piatti tirati nei lavelli. La cucina è fatta di fatica e di piacevoli conquiste. Nei reality passa l’idea che tu in poche settimane diventi un fenomeno, apri un ristorante e lo riempi. Può succedere, ma la cucina è altro».
I concorrenti di MasterChef durante le settimane di programmazione imparano davvero. Migliorano. «È tutta finzione. Recitano». …
Ci sono chef che pubblicizzano i dadi per il brodo. «Vederli mi fa male».
Non ami la competizione e la mercificazione. Ma qual è il posto dove hai mangiato meglio nell’ultimo anno? «In un monastero sul Gran Paradiso, ospite di due monaci eremiti. Il silenzio assoluto amplificava il gusto». …
Sei più a chilometro zero? «Quella del “chilometro zero” è una sciocchezza. Il chilometro zero applicato come vorrebbero certi integralisti impedirebbe gli scambi e le contaminazioni che sono la ricchezza della nostra cucina. È una delle tante estremizzazioni del momento. Invece di seguire teorie assolute, cercherei di educare gli italiani al gusto».
In che modo? «Partendo dalle scuole. Dalle mense. È lì che oggi si crea la memoria gastronomica dei nostri figli. Si deve introdurre qualità già su quei tavoli».
Hai aderito a una scuola di cucina, a Creazzo, nel Vicentino. «È il luogo che avrei voluto frequentare da piccolo. Si insegna estetica, chimica e fisica degli alimenti, profumeria. Si aprono menti. Invece del chiacchiericcio gastronomico dei blog e delle riviste, ci vorrebbero più consessi intellettuali dove confrontarsi contaminando le discipline». …”.
Sai bene che con questi argomenti m’inviti a nozze. Infatti sono tanto appassionato di cucina che amo definirmi (scherzosamente) gastrosofo. La mia principale convinzione in materia è che in nessun ristorante posso mangiar bene come a casa mia. Ma frequento volentieri i ristoranti, anzi organizzo sovente pranzi in ristorante per una numerosa comitiva (della quale anche tu fai parte) che chiamo (sempre scherzosamente) dei “borderline”. Però tutto questo solo in onore della commensalità e della conversazione. I magnifici piatti e gli eccellenti vini proposti dagli chef non mi emozionano. E la letteratura e il chiacchiericcio in materia di ristoranti e di cuochi mi lasciano freddo. Certo, un buon piatto o un buon vino in un ristorante possono anche piacermi molto, ma non quanto un pezzo di pane casereccio abbruscato, con una strusciatina d’aglio, un po’ di sale, e abbondante olio di oliva. Raramente mi viene voglia di ritornare in un ristorante solo perché colpito da un buon piatto, ma regolarmente mi viene voglia di tornare a casa per farmi una bruschetta. Visto che ho cominciato definendomi gastrosofo, ti regalo un brano tratto dal geniale libro L’immaginario è servito di Mariano Pane.
Il nostro Paese, culla della buona cucina, rischia di perdere un patrimonio straordinario di esperienze culinarie con l’avvento dei cuochi cosiddetti creativi. Si buttano a mare, come inutile zavorra, l’esperienza, la saggezza e l’avvedutezza del passato. L’esigenza di cose raffinate e sofisticate nasce dal bisogno di nascondere un vuoto interiore. Intanto i nuovi cuochi pontificano. È insopportabile l’arrogante balbettio di questi gastronomi improvvisati, che sentenziano con la boria di sommi sacerdoti su una scienza di cui fino a ieri non conoscevano neppure i rudimenti.
A proposito, è primavera e m’aspetto che il nostro Direttore Dante Freddi, ospitalissimo ed eccellentissimo nell’arte cucinaria, c’inviti a gustare i fagioli col finocchietto e le patate novelle al forno (sono arrivate quelle della Tunisia) col rosmarino e l’aglio rosso di Proceno, regolarmente vestito.