Dal locale …
La vittoria del no al progetto di fusione dei comuni dell’Alto Orvietano dice che le riforme istituzionali sono si necessarie, ma non fatte così. E viene avanti una nuova classe dirigente.
Caro Franco,
ti propongo una dichiarazione di Ulderico Sbarra, segretario generale regionale Cisl Umbria, da cui traspare una certa soddisfazione per l’esito negativo del referendum per la fusione dei cinque Comuni dell’Alto Orvietano. Un po’ come dire “io ve l’avevo detto”. Infatti Sbarra, come rappresentante anche dei dipendenti comunali che la fusione dei Comuni avrebbe fatto precipitare in una specie di mixer, aveva espresso non pochi dubbi sull’operazione di fusione. Possibile che per una valutazione obiettiva non ci restano che i sindacati, per loro natura non imparziali, in quanto rappresentano una sola parte sociale? Non ci vedi qualcosa di strano?
Pier
Alto Orvietano e progetto di fusione, ciò che alla fine temevamo si è realizzato. La scarsa partecipazione democratica, la poca trasparenza, la fumosità del progetto e soprattutto l’arroganza della politica – che pretende di fare e disfare come meglio le conviene senza tener conto della gente – ha subìto una sonora sconfitta. Purtroppo, il risultato del referendum consultivo che ha visto prevalere per 3 comuni su 5 il rifiuto al progetto di fusione, rischia di diventare una sconfitta diffusa perché ciò che i cittadini hanno bocciato per mancanza di partecipazione e per eccesso di dirigismo può compromettere ciò di cui l’Umbria ha bisogno. Una riforma istituzionale funzionale che, partendo dalla razionalizzazione delle diverse entità istituzionali (province e comuni), arrivi persino a rivedere il ruolo di una regione ormai evidentemente troppo piccola, isolata e vecchia.
A me pare che la posizione di Ulderico Sbarra non sia di soddisfazione, quanto piuttosto di disappunto. Direi che il suo ragionamento è questo: il progetto di fusione era buono perché indicava la strada delle riforme istituzionali di cui l’Umbria ha bisogno; purtroppo però le modalità di approccio sono state sbagliate e la conseguente vittoria del no può pregiudicare tutto il processo di riforma. Viene da chiedersi: allora si trattava di un esperimento? E perché come cavia è stata scelta una parte del territorio orvietano?
Comunque sia, se l’interpretazione del pensiero di Sbarra è giusta, dico che egli ha ragione solo quando afferma la necessità di metter mano ad un profondo processo di revisione dell’organizzazione istituzionale dell’Umbria. Non capisco invece di che cosa parla quando invoca la razionalizzazione delle province e dei comuni, visto che le province, con la legge Delrio, per ora vengono trasformate in enti di secondo grado e in prospettiva ravvicinata (Renzi dixit) sono destinate a sparire, mentre i comuni vedono rafforzato il loro ruolo spinti come sono a dar luogo alle unioni territoriali. Ma soprattutto ritengo del tutto errato il punto di partenza del suo discorso, cioè che il progetto di fusione dei piccoli comuni sia il fondamento della riforma istituzionale regionale.
Quel progetto infatti era sbagliato in radice, non solo nel metodo di realizzazione. Certo, per il suo esito hanno contato anche i modi e i tempi, ma di più ha contato la consapevolezza che il futuro non si costruisce con un’aggregazione di debolezze, perché in tal caso il risultato è per forza di cose solo una debolezza un po’ più grande, mentre c’è bisogno di unire il territorio in un serio e forte progetto che non si limiti a razionalizzare i servizi, ma valorizzi le risorse di tutte le aree secondo una moderna idea di sviluppo e guardi al di la dei limiti amministrativi contraendo alleanze anche con i comuni limitrofi delle altre regioni.
Questa consapevolezza è emersa con nettezza nei comitati del no, sorti spontaneamente e animati in prevalenza da giovani molto attivi e preparati, per cui si può dire che, come succede spesso nella storia, uno scampato pericolo può diventare un’occasione per ritrovare fiducia e riprendere in mano il futuro. Una cosa appare certa: nuove forze si sono messe in movimento e nuove classi dirigenti stanno per misurarsi con consapevole entusiasmo con il governo locale e del territorio.
Questa consapevolezza invece non c’è, o per lo meno non mi pare che ci sia secondo necessità, nelle classi dirigenti sia politiche che sindacali di maggior rilievo, come testimoniano sia il sostegno dato trasversalmente al progetto di fusione dai massimi livelli regionali, sia l’attendismo e l’acquiescenza degli esponenti dei livelli territoriali, che non si sono resi conto del pericolo che il progetto rappresentava proprio per le prospettive e per il ruolo che il nostro territorio può e deve interpretare.
La fase che viviamo è difficile e non ci sono soluzioni scontate. Ed è chiaro, peraltro non da oggi, che l’Umbria così com’è non può reggere agli effetti dirompenti di una crisi generale così forte e duratura. Però, dopo la lezione che hanno saputo dare le popolazioni dell’Alto Orvietano, nessuno ci venga a dire che riforma si dà se facciamo sparire qua e là un po’ di comuni. Ci vorrà ben altro, e penso che è giunta l’ora di decidere.
Comunque una domanda irriverente s’impone: ma com’è che quando si vuole riformare la regione eliminando qualcosa si parte sempre dal territorio orvietano (ieri la ASL, oggi i comuni), mentre quando si tratta di dare o istituire qualcosa si va da altre parti? Sarà forse un problema di viabilità. Mi sa che allora bisognerà riformare anche quella.
… al globale
La vera rivoluzione in Italia? Se ognuno facesse sul serio il proprio mestiere
Caro Pier,
mercoledi della scorsa settimana sono state pubblicate su diversi quotidiani nazionali alcune interviste rilasciate dal prof. Giovanni Fiandaca, il cattedratico siciliano che il pd ha deciso di candidare alle prossime elezioni europee. Ti riporto parzialmente di seguito quella rilasciata a Felice Cavallaro sul Corriere della sera. L’eco maggiore l’ha avuta l’approccio ai temi della giustizia. Era inevitabile, perché non solo a sinistra ma soprattutto a sinistra frasi come “Nessuno può assurgere ad ‘ayatollah dell’Antimafia’” o come “è una vera illusione affidare alla magistratura le leve del cambiamento” non sono “storie di tutti i giorni”. Detto di striscio, non potrà sfuggire che se affermazioni così normali appaiono ancor oggi così innovative qualcosa che non va nella nostra democrazia ci dovrebbe essere stato, dovrebbe essere ancora ben presente e non dovrebbe essere roba leggera.
Ma a me sono sembrati interessanti altri aspetti. Uno in particolare, quello condensato nel passo seguente: «Devono essere la società e la politica a rinnovarsi. Bisogna riaffermare i principi di fondo di una democrazia liberale degna di questo nome. In parole semplici, i politici facciano sul serio i politici, gli imprenditori facciano sul serio gli imprenditori e lo stesso valga per i magistrati, senza ambivalenze, precostituiti collegamenti e indebite interferenze». Questa io ritengo sia la vera rivoluzione che la democrazia italiana attende da lungo tempo per potersi legittimamente definire come tale.
Mi concedo da solo il diritto di chiarire che è ciò in cui ho sempre creduto, è ciò che ho cercato di praticare nelle mie diverse attività ed è anche ciò che ho cercato di insegnare e chiesto di fare a chi ho avuto la ventura di incontrare nell’esercizio delle mie funzioni pubbliche. Ed è per questa esperienza diretta che posso fondatamente sostenere che si tratta di cosa difficile da intendere e da praticare, perché appartiene contestualmente sia alla preparazione e all’etica personale che al clima culturale e ai comportamenti sociali di una comunità. Ma proprio su questioni come queste bisogna dire “Hic Rhodus, hic salta”. Traduco il senso: o si abbatte il malpensiero e il malcostume del “tutti si intendono di tutto” (da cui la regola: “più sei incompetente e più farai carriera”) oppure le riforme saranno solo flatus vocis, suoni informi, parole al vento. In tutte le situazioni ed a tutte le latitudini. Io la vedo così. Tu che ne dici?
Franco
“… Sorpreso professore dall’ex pm? «Ho parlato con magistrati convinti che io possa introdurre elementi di razionalità in un dibattito ormai avvelenato dai pregiudizi. Il problema non è Ingroia, nei confronti del quale nutro affetto, ma un modo preconcetto e aggressivo di discutere che purtroppo non è solo suo. Nessuno può assurgere ad “ayatollah dell’Antimafia” arrogandosi il diritto di decretare cosa è Antimafia autentica o fasulla. Questo diritto non ce l’ha nessuno».
La sua candidatura coincide con recenti considerazioni di Violante e D’Alema. Il primo, dopo «il blocco di un ventennio», auspica una «disciplina dei magistrati». E il secondo rivela che la Bicamerale nel ‘98 saltò sulla separazione delle carriere dei magistrati. «Ripensare l’Antimafia significa rimettere al primo posto una analisi critica della realtà, cominciando a riconoscere che il pluralismo non è un male da combattere, ma un valore da apprezzare e promuovere».
Anche su «Left» si legge che, dopo l’era Berlusconi, forse si potrebbe mettere mano alla riforma della giustizia. «Sto scrivendo un breve saggio su populismo politico e populismo giudiziario. Ho letto per l’occasione anche testi di giornalisti qualificati che tornano a riflettere sulle stagioni succedutesi a Tangentopoli. A vent’anni di distanza, si deve prendere atto che è una vera illusione affidare alla magistratura le leve del cambiamento».
Rischia, come qualcuno l’accusa, di spaccare il «fronte»? «Confido che la mia candidatura, ispirata a una prevalente esigenza di coesione nel Pd siciliano e nazionale, possa dare un contributo per aprire una nuova stagione che rimetta al centro l’iniziativa politica…».
Che fare? «Devono essere la società e la politica a rinnovarsi. Bisogna riaffermare i principi di fondo di una democrazia liberale degna di questo nome. In parole semplici, i politici facciano sul serio i politici, gli imprenditori facciano sul serio gli imprenditori e lo stesso valga per i magistrati, senza ambivalenze, precostituiti collegamenti e indebite interferenze». …”
«C’est une expérience éternelle que tout homme qui a du pouvoir est porté à en abuser (…) Pour qu’on ne puisse abuser du pouvoir, il faut que, par la disposition des choses, le pouvoir arrête le pouvoir. » [Montesquieu, De l’esprit des lois, Livre XI chapitre IV] «È da sempre provato che ogni uomo titolare di un potere è portato ad abusarne… Per evitare gli abusi di potere è indispensabile mettere le cose in modo che il potere argini il potere.» In base a questa constatazione Mointesquieu fissò il principio della separazione dei poteri che ogni costituzione moderna prende a base della organizzazione statale. Si tratta di un principio che, indipendentemente da come pensasse Montesquieu e da come pensano molti giuristi, collima con la concezione cristiana. È dovere di tutti lottare contro la malvagità umana, quella propria e quella altrui, ma, fino a quando la malvagità non si sarà estinta e saremo diventati tutti angeli, bisogna tenerne conto e limitarne gli effetti. Quindi l’evidente strapotere della magistratura italiana non è che la conseguenza dell’impotenza dei legislatori e dei governanti. Governo e parlamento hanno formalmente i poteri per rimettere i paletti alla magistratura, ma non hanno usato tali poteri perché una parte politica forte e condizionante, cioè la sinistra, ha ceduto alla tentazione di usare la magistratura per vincere nella competizione politica. Adesso che quella parte politica è sicura di vincere sul piano elettorale, comincia ad essere più obiettiva.