di Italia Nostra Orvieto
Nel silenzio di una città ormai distratta e stanca, l’ufficio tecnico del Comune di Orvieto ha “sanato” il crollo, accidentale o provocato non sta noi a dirlo, del muro d’orto a due passi dal Duomo, lungo Via delle Scalette, avvenuto in due tempi alla fine di febbraio (le fotografie si riferiscono al primo dei due). Pressoché in contemporanea, Antonio Toni Concina presentava le sue “memorie di Sindaco”, una trentina di paginette zeppe di grafici, dove si cercherebbe invano almeno un rigo dedicato ai c.d. “beni culturali”?. In questo, l’ormai prossimo ex-sindaco, si è dimostrato decisamente coerente. Il suo mandato è stato caratterizzato dalla totale disattenzione verso il patrimonio storico artistico cittadino: iniziato con la brutta copia della statua della Madonna col Bambino collocata sul portale centrale del Duomo (2009) si conclude con il muretto crollato in Via delle Scalette. Per tacere sulla scelta autolesionista di non partecipare al protocollo d’intesa per avanzare all’UNESCO la candidatura dei Comuni del territorio dell’antica Dodecapoli etrusca ad essere dichiarati patrimonio dell’umanità e l’altra, non da meno, di aver tirato indietro Orvieto dalla partecipazione, insieme a Perugia ed Assisi, al progetto di candidatura a città europea della cultura 2019. Fra questi estremi, ben si colloca la vicenda della piscina in area archeologica lungo la strada del Tamburino e la privatizzazione temporanea della piazza del Duomo e dello stesso sagrato per permettere lo svolgimento della manifestazione privata per il 4 luglio, festa dell’indipendenza americana.
Per trovare qualcosa che possa fare il paio con tutto questo si deve tornare agli anni ruggenti del sindaco Stefano Cimicchi, quando l’Arcone, un bell’arco a sesto ribassato che permetteva alla strada umbro-casentinese di attraversare il muraglione dell’acquedotto medievale, è stato trasformato in una specie di sottopasso con putrelle a vista.
La brutta sorte subita dal muretto di Via delle Scalette bene si presta per affrontare un problema sempre disatteso nella nostra città: l’attenzione alla c.d. architettura minore, che di minore non ha nulla, come appunto il muraglione dell’acquedotto medievale, divorato dalla vegetazione, o il muro e la porta medievale dei borghi di Surripa e della “Cortina Civitatis” medievale i cui ultimi resti si stanno disgregando, per l’incuria di chi dovrebbe preservarli, lungo la Via di Santo Manno.
Certo il muretto di Via delle Scalette non aveva nulla di “architettonico” ma, comunque sia, era già presente quando Angelo Sanvitani, nel 1662, incideva la veduta prospettica di Orvieto e Francesco Tiroli disegnava la sua carta di Orvieto nel 1768ca, dove è correttamente riportato. Era un semplice «muro d’orto» con «in cima cocci aguzzi di bottiglia» di montaliana memoria, con viti di uva fragola e piante di rose rampicanti, posizionato, però, a due passi dal Duomo e ad esso in qualche modo riferito – basterebbe guardare i disegni che Friedrich Maximilian Hessemer ha dedicato al monumento dallo scorcio della Via delle Scalette il 1° luglio 1828 o l’acquarello di Leslie Wilkinson, della primavera del 1906, o il disegno a carboncino che Yoshio Markino, nel 1911, ha dedicato proprio alla Vie delle Scalette con annesso muro, pubblicato in un libro di viaggi (A little pilgrimage in Italy di Olave M. Potter)- e proprio per questo ricompreso nell?area di rispetto del monumento sottoposta a vincolo ministeriale.
Legittime le aspettative dei proprietari, che dopo aver comprato l’orto, con annesso muro, e dopo averlo trasformato, grazie a qualche condono, in parcheggio per hotel, hanno chiesto l’ampliamento del cancello d’ingresso per facilitare le manovre automobilistiche dei clienti. Legittimo anche il progetto presentato per quell’ampliamento, con tanto di consolidamento del muro stesso, così come prescritto dalla Soprintendenza: peccato che il muro è venuto giù, in due fasi distinte. Tutto questo si sarebbe potuto evitare consolidando il muro prima di togliere gli stipiti del cancello, così come recita il cartello ancora affisso sul cantiere («ripresa del paramento murario e modifica del cancello») o, più semplicemente, segnalando in fase di progetto la minaccia di crollo.
Se possono essere legittime le aspettative dei proprietari e quelle dei tecnici, chiamati a risolvere il problema che li gravava, meno legittime, a parere nostro, le motivazioni che hanno portato ad autorizzare l’intervento. Forse qualche responsabilità oggettiva, va ricercata almeno in chi è chiamato a vigilare e a rilasciare licenze edilizie e in chi ha il compito di garantire la godibilità di un bene di pubblico interesse. Il c.d. «codice Urbani» (Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 «Codice dei beni culturali e del paesaggio»), è chiaro; «i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla legge, (?), non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione» (Art. 136), così come lo è il DGR 420/97 «Disciplina interventi recupero patrimonio edilizio esistente, art. 45, c. 1, lett. b) L.R. n. 1/2004 con il Repertorio dei tipi e elementi ricorrenti nell?edilizia tradizionale», che prescrive, fra l?altro: «Sono comunque oggetto di conservazione e restauro le sistemazioni originali esistenti ad orto o a giardino, (?), nonché i muri di recinzione e le pavimentazioni di tipo tradizionale in mattonato, basolato o acciottolato» (Art. 20).
A questo punto, l’Ufficio tecnico del Comune, l’assessore all’Urbanistica, che a Orvieto è il Sindaco, il presidente della Commissione Edilizia, che è sempre l’assessore e quindi sempre il Sindaco, così come il c.d. “membro esperto” della commissione, un professionista esterno, avrebbero potuto considerare la possibilità che il progetto di intervento poteva essere se non inadeguato almeno migliorato; magari avrebbero potuto guardare con maggiore attenzione la Relazione paesaggistica, sulla quale si appuntano molti degli articoli dei regolamenti sopra richiamati. Sarebbe interessante essere messi a conoscenza di come è maturato, da parte dell’architetto comunale responsabile del procedimento in materia ambientale, il parere favorevole, che ha permesso alla pratica di essere analizzata in commissione per la qualità architettonica ed il paesaggio. Probabilmente il Sindaco, nella sua duplice veste di assessore all’Urbanistica e di Presidente della Commissione Edilizia, considerata la vicinanza col Duomo, avrebbe dovuto essere più accorto, forse sospendere la pratica, richiedendo le integrazioni dovute all’intero progetto, come la relazione storica (ai sensi del già richiamato DGR 420/2007) con riferimento agli edifici che insistono sull’area (magari escludendo il Duomo per ovvie ragioni), e, soprattutto, quella stessa relazione storica in cui si dovevano individuare le c.d. “unità stratigrafiche murarie”, quelle cioè che avrebbero permesso, insieme alle valutazioni sulle metodologie costruttive, di individuare l’epoca costruttiva e la stabilità della costruzione.
Forse si potrebbero ipotizzare responsabilità dell’Ufficio tecnico per il mancato controllo, in fase istruttoria, se non addirittura di danneggiamento, di un contesto fortemente significativo, perché prospiciente il Duomo di Orvieto, ma questo non spetta a noi dirlo né rilevarlo. Qualcosa è però evidente: il muro non c’è più e l’Ufficio tecnico, “sanando” l’accaduto, ha tentato di metterci una pietra sopra.
Volendo comunque esprimere una considerazione positiva, la scrivente Associazione suggerisce con le dovute cautele e forme, di far ricostruire quel muretto così come era, utilizzando tutti quegli accorgimenti tecnici e filologici e i dovuti controlli necessari alla buona riuscita dell’intera operazione. In particolare, un attento ricorso all’”anastilosi”, che, in architettura, è la tecnica con la quale si rimettono insieme, elemento per elemento, i pezzi originali di una costruzione crollata e/o distrutta, per esempio dopo un terremoto. Infatti, per la “Carta del Restauro di Atene” (1931), tale tecnica di ricostruzione è auspicabile ogni volta che le condizioni lo consentano, e l’unica scientificamente accettabile. La posizione è ribadita dalla “Carta di Venezia” del 1964, che definisce l’anastilosi come la «ricomposizione di esistenti parti smembrate con l’aggiunta eventuale di quegli elementi neutri che rappresentino il minimo necessario per integrare la linea e assicurare le condizioni di conservazione» e la qualifica come l’unica scientificamente accettabile: ogni integrazione che dovesse rendersi necessaria deve risultare distinguibile dalle parti antiche, al fine di non offuscare la leggibilità.