Evidentemente, nel momento in cui il promotore e candidato-sindaco della lista civica “La mia Orvieto” ha deciso di così nominarla non era, affatto, a conoscenza di quella che gli studiosi di psicanalisi definiscono come una delle “sindromi dell’inconscio” e che, io, mi sono permesso di ribattezzare quale “slatentizzazione dei reali intendimenti della volontà”.
“Mia”, al femminile, è pronome e/o aggettivo possessivo e rende l’idea del senso di proprietà personale di un oggetto, di un bene o di un servizio, di una dimensione astratta o reale che sia.
La città di Orvieto rientra a pieno titolo in quest’ultima categoria e, però, in quanto tale non può essere destinazione di proprietà privata, né giuridicamente e né moralmente.
Chi sostiene, seppur in uno slogan elettoralistico, che una città è “sua”, non solo commette peccato di superbia ma, anche e specificamente, infrange la dignità e l’onore di una intera comunità civica.
Vi fu, nel corso della storia, un tal Luigi XIV che si arrogò la facoltà di autodefinirsi “L’état c’est moi” (lo Stato sono io). Non è più però il tempo delle monarchie assolute ed oggi, in democrazia, a nessuno è consentito di poter affermare: “Orvietò c’est moi”.
Ho sentito il dovere etico di rappresentare quanto sopra poiché ho ritenuto giusto, dopo avervi a lungo pensato, di porre sull’avviso le orvietane e gli orvietani del pericolo incombente sotteso al sempre valido adagio popolare che, in tal modo, recita: “uomo avvisato è mezzo salvato”.