Lo vedi al supermercato, proprio lì davanti. Entrano ed escono i clienti con le loro leccornie. Il tempo è cupo, Omar se ne sta in un cantuccio.
Brillano gli occhi marroni di quest’uomo nero che non riesce a essere triste come le nuvole nere. Sono in tasca le sue mani abituate al caldo, perché Omar viene dal caldo. Lo capisci che in quel giubbotto trasandato c’è tanta dignità. Non importuna, non insiste, la sua mercanzia è in bella evidenza e chi vuol chiedere chieda, chi vuol salutare saluta, lui non se ne dispiace.
Omar è un uomo che, chiuso il supermercato, chissà dove andrà.
Ti chiedi quante ore ha un uomo così; sarà proprietario delle sue ore, oppure neanche quelle gli appartengono? Forse sono i movimenti sonori a dargli i tempi, a scandirgli i momenti: saracinesche, portiere, passi, il ticchettio della pioggia, i colloqui della vita degli altri.
Omar vede e sente un altro mondo. I suoi occhi sono allegri nella miseria, e non piangono per gli stenti. Il suo sentire si scioglie nella pioggia e si corazza nel sole. Non ha fretta, e perché dovrebbe? La fretta appartiene alla vita degli altri. Lui è un uomo nero, grande e grosso, lento nei movimenti; un elogio incarnato dei piaceri della lentezza.
Omar appartiene a un’altra epoca. E’ l’eco di un altro mondo, è il nostro pensiero che si distrae ma non si ferma, è la nostra ombra nera che ci segue con discrezione perché teme di disturbarci. E’, a ben vedere, il simbolo della nostra paura che non sa fa fare i conti con l’altro dell’altro mondo.
Omar è un uomo che, chiuso il supermercato, chissà dove andrà: forse in un tugurio, in un cumulo di carne imprigionata dal cemento dove si sentono più lingue che raccontano più storie bisbigliando. E scesa la notte, il domani non sarà un altro giorno: perché Omar non ha mai visto “Via col Vento”. Eppure sarebbe il suo film: lento e colorato, di un’altra epoca, senza l’agonia del tempo che incombe.