di Aramo Ermini
Gianni aveva quasi sessanta anni. Trascorreva molto del suo tempo riflettendo sulla sua vita, per riannodarne i fili.
Mentre lavorava, mentre passeggiava, leggeva o ascoltava la radio, ricordava, analizzava, cercava di capire.
Non era solo un’attività per essere maggiormente intimo a se stesso, era anche questo e ciò richiedeva che fosse la maggior tempo da solo, ma anche il tentativo ostinato di venire a capo della sua esistenza e cercare di porre basi solide per vivere serenamente il tempo che gli rimaneva, che sperava lungo.
Era come un Ulisse che con tutto se stesso, sensi e intelletto, andava alla scoperta di ciò che non conosceva. Ad esempio, dopo non so quanti mesi, si era accorto che un piccolo tavolino sul pianerottolo della scalata del palazzo in cui abitava, era provvisto di viti, che permettevano di fissare più facilmente il piano ai piedi, mentre lui chissà quante volte aveva tentato di usare al bisogno chiodi e altro.
Ora “vedeva” un po’ meglio, sia le piccole che le cose più grandi.
Tutto era cominciato a 20 anni.
Allora Gianni appariva come un ragazzo brillante, riusciva facilmente negli studi che, da un certo punto in poi aveva tralasciato, gettandosi completamente nell’impegno politico – religioso, nell’Italia degli anni ’70.
Era arrivato a Roma per frequentare l’Università da una cittadina del centro Italia e abitava in una palazzina affittata interamente da studenti, amici fuori-sede dello stesso movimento in cui militava.
“ La Villa “ la chiamavano, una vecchia palazzina inizio ‘900 alle spalle del Policlinico “ Umberto I “, a poche centinaia di metri dall’Università.
Roma era “ calda “ in quegli anni.
Una notte verso l’una, mentre attaccava manifesti del sindacato con alcuni suoi amici, a via del Corso, un gruppetto di persone discesi da due macchine li avevano inseguiti.
Accortisi, Gianni ed i suoi amici avevano iniziato a correre, con i secchi di colla, le scope, i rotoli di manifesti.
Avevano trovato rifugio in un vicolo laterale e lì un carabiniere in divisa che rientrava a casa dopo il lavoro, resosi conto della situazione, aveva estratto la pistola e intimato l’alt agli inseguitori, 6 o 7 persone con in mano manifesti della X Mas.
Poi, due poliziotti in borghese, con la mano destra sotto la giacca, pronta sulla fondina della pistola, avevano scortato Gianni e i suoi amici fino alla vecchia 600 ancora parcheggiata a via del Corso.
Episodi simili, più o meno “ pesanti “, erano quotidiani, dentro e fuori dell’Università.
Di lì a poco tempo Aldo Moro sarebbe stato rapito dalle Brigate Rosse.
Gianni aveva frequentato il Liceo, nonostante ciò si era iscritto a Magistero. Materie Letterarie, perché in quel corso di laurea servivano persone che aiutassero il suo movimento.
Sarebbe pure potuto finire a Napoli, dove all’Università c’era una giovane comunità bisognosa di persone attive, ma i capi decisero di no.
Il forte impegno di Gianni gli aveva fatto guadagnare dei posti di responsabilità all’interno della comunità.
Una volta, passeggiando con Lucio, lui lo aveva appellato come l’enfant prodige del movimento a Roma.
Comunque, nonostante l’intensità del suo impegno, riusciva a dare esami. La tecnica era quella di studiare i 15 giorni prima della prova. Nonostante la paura di non farcela funzionava e i voti non erano neppure bassi.
Gianni difettava però di coscienza di se stesso, non che fosse cattivo o in malafede, ma l’esperienza che conduceva non andava in profondità e Gianni non si poneva domande.
Non aveva possibilità di accesso a se stesso, né mentalmente né emotivamente. Funzionava così, alla superficie, senza saperlo e senza sapere nulla di se stesso.
Anni dopo leggendo uno scritto di Jacques Lacan, fu colpito dalla descrizione della “ fase dello specchio “ che lì lo psicoanalista francese faceva e gli sembrò di riconoscervisi.
Gianni non si specchiava mai, non poteva avere quindi cognizione di se stesso.
Fu una mattina, non ricordava se alla Cappella Universitaria o alla “ Villa “, che don Giacomo confessava che iniziò tutto. Tutto ciò che avrebbe sconvolto indelebilmente la sua vita.
Gianni, non ricordava con nitidezza, forse aveva preparato un discorsetto “ganzo” per la confessione, mentre aspettava il suo turno.
Prima di lui si era confessata Anna, una studentessa di un paesino a sud di Roma iscritta a Pedagogia che, tutti i giorni, faceva la pendolare con l’ Università.
Anna era il ritratto della salute, non solo fisica, faccia rubizza, capelli crespi, parlata ciociara.
Sana, schietta di fisico e d’animo.
Era la compagna fedele di Giuseppina, anch’essa iscritta a Pedagogia, gentilissima ed intelligente ragazza cieca proveniente dall’Abruzzo, che abitava alla “Villa “ come studentessa fuori-sede.
Gianni era il responsabile, “diacono”, della comunità di tutti i corsi di laurea di Magistero, Psicologia esclusa.
Don Giacomo, o solamente Giacomo, come tutti lo chiamavano, appena terminato di confessare Anna passò a Gianni, confidandogli prima di ascoltarlo che Anna era davvero in gamba.
Queste parole ebbero un effetto dirompente su Gianni che non fece il bel discorsetto che aveva preparato ma, inaspettatamente anche per lui stesso, scoppiò in un pianto irrefrenabile e confessò che tutto ciò che aveva fatto, l’aveva fatto per potere, per affermarsi.
Non che Gianni avesse perseguito coscientemente l’affermazione, con calcolo, voleva forse dire che non aveva vissuto autenticamente.
Questa improvvisa irruzione della coscienza nella sua vita ebbe come conseguenza la speranza di un’esperienza più vera.
Gianni si meravigliò che Giacomo, il prete a capo del movimento a Roma, lo conservasse tra i responsabili e, fuori della “Villa”, alcuni giorni dopo la confessione, disse a Lucio e Papero che aveva fatto una grande cosa, si riferiva alla presa di coscienza.
In quell’occasione gli sembrò anche che le cose assumessero una nuova luce, i colori delle case intorno più caldi, più sentiti, anche se tenuemente.
Così non fu.
I mesi che seguirono furono un lento scivolare sempre più a fondo, fino a che sotto i piedi di Gianni si spalancò la botola dell’Inferno.