di Pirkko Peltonen
Di ritorno da un soggiorno di più di un mese a Parigi, confesso la mia felicità nell’ aver ritrovato le mie trattorie orvietane, con i loro piatti forse non innovativi o fantasiosi, ma sempre autentici e ben cucinati. Sempre da godere.
Perché la famosa “cucina francese”, almeno a Parigi, non esiste più. Nelle “brasserie”, spesso parte di grandi catene ristoratori, offrono piatti serviti ad ogni ora del giorno, quindi preconfezionati e riscaldati in quel orrore del mondo moderno che si chiama il forno a micro-onde.
Ed è così che la famosa zuppa di cipolle, gustata in una delle più famose “brasserie” di Parigi, oggi sa di acqua di risciacqua dei piatti.
E se sei amante delle famose crêpes, sta attento ad ordinarle solo dove vedi che te le preparano al momento. Altrimenti potresti trovarti a doverle rimandare in cucina, come è successo a me.
Una premessa: conosco molto bene Parigi. Vi sono vissuta, mille anni fa, da studentessa squattrinata, ma anche da signora negli anni ruggenti della mia vita.
I luoghi che frequento, non sono luoghi da turista qualsiasi. So di che cosa parlo. E vi assicuro, davvero di gusto culinario di una volta ce n’è rimasto ben poco.
Non è che i francesi, in casa loro, mangino male: i negozi offrono prelibatezze di ogni sorta, a prezzi simili a quelli italiani; la carne è certamente di qualità migliore. E i frutti di mare, a partire dalle ostriche, sono alla portata di tutti. Sono i ristoranti che lasciano a desiderare.
Pazienza! Per me e per i turisti. Perché se vuoi una cena da gustare vi sono un’infinità di ristoranti “etnici”, dal barbecue coreano al ristorante giapponese o vietnamita – oppure, anche, nel pomeriggio – ecco una chicca! – il vero thè alla menta coi dolci libanesi sulla terrazza all’ultimo piano dell’Institut du Monde arabe.
Per contro, sono diventati molto gentili e cortesi i parigini, bianchi, neri o gialli che siano. Non puoi non rimanere affascinato dalla marea interculturale parigina. Quella che ti ritrovi anche sui metrò. E che avverti in mille stimoli, culturali, o anche nella sola osservazione di quello che ti passa davanti. Così come non puoi non renderti conto dell’efficienza della vita parigina: tutto funziona, sempre. I mezzi pubblici come i negozi, sempre aperti. Tutti i pagamenti si fanno con la carta di credito, il che risolve alla radice il problema sia degli scontrini sia della collegata evasione fiscale. La città è pulitissima: uomini della “propreté” parigina ti spazzolano e lavano le strade in continuazione; ogni condominio fa la raccolta differenziata.
Se ciò è possibile in una città enorme, nella piccola città di Orvieto, come nelle sue frazioni, una raccolta di rifiuti decente, senza la “monnezza” in giro, no?
A Parigi, ad ogni mostra devi prepararti per una coda di almeno un’ora. Le mostre spesso, però, sono aperte anche in ore serali e notturne. Come, oramai, anche a Milano e Roma e nei nuovi centri museali italiani. Dico una banalità: la cultura, quando offerta bene, rende e rende molto bene anche economicamente. A Parigi, come a Granada, a Barcellona, a Berlino. A patto che sia offerta a livello internazionale; a patto che sia offerta come “occasione da non perdere”.
Nella piccola città di Orvieto, qualcosa da imparare?
Ma sono tristi, i francesi. Tristi e arrabbiati. Se gli italiani hanno il primato dell’autolesionismo, i francesi il loro primato ce l’hanno con il pessimismo “gallico”. La maggioranza dei francesi pensa che il Paese sia irrimediabilmente avviato al declino. (“Y a plus rien a faire!”) I numeri- preoccupanti – sulla disoccupazione e sui conti pubblici a livello nazionale non aiutano, così come i racconti sui piccoli paesi sperduti, privati non solo dell’unica impresa che dava lavoro ma persino dell’ufficio postale, e peggio ancora, della “boulangerie”. Come non aiutano gli scandali appena rivelati, i resoconti dei guadagni e delle bustarelle della casta francese. Tutto il mondo è paese: nulla di cui possa sorprendersi un italiano, da millenni abituato a tutto.
Ma ai francesi, più sanguigni ma meno cinici degli italiani, viene a mancare il terreno sotto i piedi, e si aizza la protesta. Vi risparmio le invettive del parigino tipico nei confronti del governo attuale (le parolacce francesi sono più truculenti di quelle italiane); diciamo che il “vaffa” francese ha fatto guadagnare molti voti all’opposizione (Ump- destra moderata), ma ha fatto trionfare il Fronte Nazionale con il suo carico di rivoluzione populista, incarnata nella preoccupante figura, nello stesso tempo dirompente e materna, di Martine Le Pen.
La grande “gauche” di François Hollande lecca le sue ferite.
Non aveva capito di dover rottamare di più.
Oggi, dopo il rimaneggiamento del governo della “gauche”, reso necessario dalla clamorosa sconfitta, il neo primo ministro Manuel Valls (figlio di fuorusciti spagnoli) parla della necessità di “velocità” e di “efficienza” nell’agenda governativa.
Non vorrei che fosse, ancora una volta, proprio l’Italia a dare il là in Europa. Fu l’Italia a inventare il fascismo; fu l’Italia ad essere la prima nella resistenza al fascismo; fu l’Italia, col partito comunista allora più forte dell’Occidente, a dare l’avvio all’”eurocomunismo”, quella concezione berlingueriana della sinistra europea.
Per ora, è salva Parigi. Con la nuova sindaca Anne Hidalgo (figlia di fuorusciti spagnoli anche lei), eletta dai parigini soprattutto per l’apprezzamento positivo nei confronti del precedente, forte, governo di centro-sinistra della città.
Un’ultimo appunto. Parigi conserva ancora tutto il suo “charme”, davvero parigino. Non è stata affatto deturpata dalla fredda globalizzazione. A Parigi, i caffè sono sempre quelli di una volta. Terrazze aperte al mondo che ti passa davanti; terrazze, oggi, con il wi-fi dove ti dedichi a quello che vuoi. Sono sempre quelle di una volta anche le poltroncine di vimini, identiche in tutti i caffè. E’ questione di decoro urbano, decisa dall’amministrazione della città.
Già, il decoro urbano che fa il “feeling” di una città. E nella piccola città di Orvieto, no?