Dal locale …
Aumentano le povertà. Noi come aiutiamo chi ha bisogno?
Caro Franco,
traggo da questo sito alcuni passi di un articolo di Stefania Tomba che c’informa che aumentano gli affamati da nutrire, gl’ignudi da vestire, i malati da curare e così via. C’eravamo un po’ dimenticati delle opere di misericordia. Forse davamo troppo per scontato che lo Stato avrebbe provveduto a tutto. Come ha scritto il poeta T.S. Eliot, avevamo cercato di evadere dal buio esterno e interiore “sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono”. Tu che ne dici?
Pier
“Lo dice il I° Rapporto Caritas dicesano sulle povertà… I dati registrano che sono 30mila i pasti mensa distribuiti nel corso del 2013 tra Orvieto e Todi, 10mila le notti alloggio offerte, 272 le famiglie aiutate economicamente, tramite il fondo di solidarietà messo a disposizione dalla Chiesa umbra, il fondo diocesano e le donazioni dell’otto per mille. Un totale di circa 47mila singoli interventi e 4mila persone aiutate, materialmente o spiritualmente… Ma al di là dei numeri, i dati macroscopici che emergono… è che se un tempo la Caritas aiutava prevalentemente stranieri, oggi deve rispondere a richieste d’aiuto che arrivano al 50% da italinai e al 50% da stranieri. E se fino qualche anno fa quando si parlava di nuove povertà (ovvero del disagio legato all’alcol, alla droga allo stress) oggi si torna ad avere a che fare soprattutto con la povertà materiale. Con le famiglie che non arrivano a fine mese, che non riescono a curare i denti dei figli o a comprare loro il necessario per la scuola.”
Già lo Stato preoccupato del benessere dei suoi cittadini (welfare state) era in affanno prima che arrivasse la grande crisi, figuriamoci ora che il suo prolungarsi e aggravarsi ha fatto aumentare a dismisura le richieste di assistenza delle persone in difficoltà su diversi fronti. Se poi si aggiunge che si sta rapidamente smantellando anche il sistema del risparmio e dell’assistenza familiare, si capisce bene che i risultati non possono che essere, per la Diocesi Orvieto-Todi, quelli descritti nel Rapporto Caritas sulle povertà e, per il Paese, quelli che leggiamo tutti i giorni sui giornali e sui rapporti periodici dei diversi soggetti che si occupano del sociale.
Come si fronteggia un problema così grave, che ha diverse facce, con questa dimensione e questa complessità? Tu poni una questione di orientamento generale delle coscienze e anche di cultura politica. Rispondo alla tua sollecitazione così, in modo schematico: il bisogno di essere buoni è necessariamente individuale in quanto c’è solo in chi lo sente, e quando c’è resta (magari alcuni ne fanno una ragione di vita) anche qualora esistesse uno stato che fa funzionare tutto come un orologio svizzero (quello di una volta!), ciò che evidentemente non è; mentre il welfare, dopo la crisi degli anni trenta del novecento, è un’invenzione che nel tempo si è trasformata in necessità e dovere dello stato moderno, in particolare degli stati organizzati in forma di democrazia.
Insomma, c’è una solidarietà che si esprime in forma individuale, attraverso atti singoli o con le diverse attività organizzate di volontariato, utili socialmente e appaganti per le coscienze sia religiose che laiche; e c’è una solidarietà sociale che deve esercitarsi in forma pubblica attraverso servizi efficienti ed efficaci. Penso che nessuno che abbia buonsenso può affermare che c’è contrasto tra queste due forme di solidarietà.
Per troppi anni si è predicato bene e razzolato male, dicendo che il pubblico deve fare tutto, ma facendolo diventare nei fatti la mucca a cui tutti potevano attingere, più facilmente se si poteva essere amici degli amici. Rigore poco ed efficienza poca, spesa tanta e sprechi tanti. Un’astratta e arrogante idea dello stato che in teoria deve fare tutto si è così trasformata nel suo rovescio: lo stato deve ritirarsi, diamo tutto ai privati (la scuola, la sanità, i trasporti, l’acqua) e così finalmente tutto funzionerà a dovere. Risultato? Quello che vediamo: non abbiamo riformato in tempo lo stato sociale e nel contempo non solo abbiamo esaltato per lungo e per largo il volontariato (spesso a ragione), ma ci siamo ridotti a far funzionare anche i gangli vitali dello stato con la buona volontà delle persone, se non anche con la loro bontà, e però i servizi languono (anche quelli essenziali) e le persone soffrono come e più di prima, non avendo spesso nemmeno le risposte minime che una società che voglia ritenersi civile deve assicurare.
Ed ecco dunque la mia conclusione. Lo statalismo, l’idea dello stato onnisciente e onnifacente (normalmente male) non fa per me. Ma non fa per me nemmeno l’individualismo buonista e pauperista secondo cui le società hanno bisogno di povertà e di dramma umano per mettere alla prova la disponibilità solidaristica delle persone. Entrambi gli orientamenti, da benèfici che vorrebbero essere, si trasformano inevitabilmente alla prova dei fatti in malèfici.
Tra le tante citazioni che mi verrebbe di fare a questo proposito, e in termini propositivi, scelgo l’opera di Jacques Maritain del 1951 L’uomo e lo Stato. Un’opera nella quale il grande intellettuale francese propone la fondazione di una democrazia personalista e pluralista basata su una fede temporale del tutto pratica, che unisca i cittadini, al di là dei diversi credi religiosi o laici, in “un comune credo umano, il credo nella libertà”. In questa visione lo stato non fa tutto, né però lascia fare a chi è buono o pensa di essere tale, perché il destino di ognuno di noi, soprattutto quando è in difficoltà, non può dipendere dalla disponibilità solidaristica di qualcun altro. I servizi dello stato possono essere integrati, ma certo non debbono essere sostituiti. E intanto debbono essere un esempio di rigore gestionale e di etica della responsabilità, cioè debbono funzionare per la ragione che ne giustifica l’esistenza.
… al globale
Torna in auge la riforma delle regioni?
Caro Pier,
qualche giorno fa sull’edizione online de Il Mattino di Napoli si potevano leggere le notizie flash che ti riproduco sotto. La provocazione di Caldoro è forte e la risposta di Renzi non lo è di meno. D’altronde, com’è noto, molti pensano che un intervento drastico sulle regioni, dopo quello che si è visto e saputo, porterebbe benefici più rilevanti, sia finanziari che di ordine generale, dell’abolizione del senato e delle province. Si sta forse tornando alle idee di Gianfranco Miglio? Tu che ne dici?
Franco
“Il governatore della Campania Caldoro lancia la sfida a Renzi: sciolga le Regioni. «Il governo faccia tutto quello che finora non è stato fatto. Su Pompei l’Europa è stata veloce, noi Regione abbiamo stanziato 105 milioni. Stessa storia per il Porto di Napoli: abbiamo impegnato 300 milioni e altri 200 arriveranno. Eppure i progetti restano non attuati. Dunque, meglio i commissari». Sullo strappo tra cosentiniani e il resto di Fi in consiglio regionale poi è chiaro: «Non mi curo degli scontri nei partiti, io mi occupo dei cittadini». Ed esclude l’ipotesi rimpasto”.
“«Voi alzate la palla e io poi schiaccio». Renzi approva l’idea del presidente della Campania Caldoro di unire le sei regioni del Sud in una macroregione, purché siano tutti d’accordo. C’è già il sì della Basilicata di Marcello Pittella. La macroarea meridionale avrebbe il doppio degli abitanti della Catalogna e il triplo della Scozia e supererebbe stati come la Svezia e la Grecia.”
Per viaggiare bene occorrono sia un buon guidatore che una buona macchina. Anche i buoni governanti possono fare poco se la macchina pubblica è lenta, consuma troppo e s’inceppa, Così come una macchina pubblica ben congegnata esce di strada se non è ben condotta. Che l’assetto costituzionale italiano sia inadeguato lo hanno finalmente capito tutti; e tutti hanno capito che le cosiddette “riforme a costituzione invariata” non sono sufficienti. Quindi si è rotto il fronte del conservatorismo costituzionale che ha la sua origine nell’assemblea costituente. I nostri padri costituenti peccarono di apprensione e di presunzione. Apprensione, perché temevano che una costituzione flessibile come il vecchio statuto albertino avrebbe lasciato aperta la strada a nuove deviazioni autoritarie. Presunzione, perché si convinsero d’aver inventato una costituzione perfetta e quindi la blindarono architettando un procedimento di revisione costituzionale terribilmente complicato e defatigante. Tanto è vero che l’unica consistente riforma costituzionale, quella del titolo V (riparto delle attribuzioni tra Stato, regioni ed enti locali), ha finito col peggiorare la situazione e tutti adesso vogliono rimaneggiarla. La possibilità di una solida riforma della costituzione senza riconvocare (come sarebbe logico) una assemblea costituente, e quindi ad opera dell’attuale parlamento eletto con una legge illegale, mi sembra alquanto peregrina. A meno che, nell’angoscia della recessione economica, non maturi una situazione prerivoluzionaria. Certi atteggiamenti del giovane presidente del consiglio, pressato e provocato dal comico urlante, guru della protesta, e dal riccioluto e inquietante paraguru, sono dei segnali in tal senso. Del resto Matteo Renzi, proponendosi quattro anni di governo con un parlamento incostituzionale, sta instaurando un semidittatura. Che è forse l’unica alternativa al caos.