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Home Corsivi

La ricetta per il lavoro che non c’è

Redazione by Redazione
18 Marzo 2014
in Corsivi, Archivio notizie
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di Danilo Buconi Consigliere provinciale di Terni

Il progetto sul lavoro presentato dal Presidente del Consiglio non fa acqua da alcuna parte perché, semplicemente, non esiste, è inconsistente, manca di concretezza.

Il nostro Paese è praticamente a terra sul piano sociale ed economico: famiglie allo stremo, imprese quasi, domanda interna di beni e servizi praticamente nulla, domanda estera al limite dell’accettabile, posti di lavoro praticamente esauriti.

In questa situazione nessun Governo, di nessun colore politico, potrebbe avere la capacità di creare posti di lavoro. Ma tutti i Governi, di qualsiasi colore politico, avrebbero il dovere di provare, di proporre soluzioni, di ricercare il confronto – dentro  e fuori il nostro Paese – con l’obiettivo di tentare almeno qualche pur timida soluzione.

Cosa fa, invece, il Governo Renzi in tema di lavoro? Propone la liberalizzazione dei contratti flessibili per tre anni, ossia la possibilità di assumere a tempo determinato un occupato ogni cinque occupati a tempo pieno nell’arco di 36 mesi. Peccato che dimentichi di dire, il Presidente del Consiglio, quanti posti di lavoro nuovi si creerebbero, a quale reddito annuo e per quanto tempo! Così come si dimentica, peccato ancora, di tenere in considerazione almeno le piccole e medie imprese nella promessa riduzione della pressione fiscale, legando lo stesso alleggerimento fiscale esclusivamente al mantenimento dei livelli occupazionali.

Il sistema economico nazionale è saturo: incremento demografico praticamente nullo, disoccupazione record, bassi redditi a disposizione dei cittadini che un lavoro riescono ad averlo, diminuendo esponenzialmente la domanda interna di beni e servizi, riducono quotidianamente la necessità di produzioni e, con essa, probabilità e posti di lavoro, sia autonomo che dipendente, ripiegando quotidianamente il nostro Paese su se stesso.

A fronte di questo quadro, il primo passo importante da fare, forse l’unico – per un Governo davvero alleato dell’Italia e degli italiani – sarebbe dovuto essere quello di pensare ad una redistribuzione del lavoro che c’è. Come? Incentivando una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, su base volontaria, attraverso opportuni ed idonei incentivi fiscali in grado di compensare gran parte delle somme non percepite a causa della riduzione d’orario di lavoro e sostenendo idealmente e politicamente la positività di un progetto che avesse previsto un po’ meno lavoro per tutti in cambio di più opportunità di lavoro per tutti.

Nel concreto l’idea dovrebbe essere quella di stimolare una riduzione d’orario settimanale almeno pari al 10% del monte ore nella totalità – o almeno nella maggior parte – delle aziende private con almeno 10 dipendenti: in questo caso, ogni 9 lavoratori che dovessero accettare una riduzione oraria settimanale del 10% (4 ore, scendendo da 40 a 36) permetterebbero di creare un nuovo posto di lavoro da 36 ore settimanali, oppure due posti a tempo parziale, concedendo così l’opportunità – seppur ridotta – di un lavoro, almeno part-time, a nuovi soggetti.

Per tutti questi lavoratori, si dovrebbe prevedere – per compensare il minor salario o stipendio dovuto alla riduzione di ore – una fiscalità di vantaggio ossia una riduzione o rimodulazione che dir si voglia delle aliquote Irpef, ragionando ad esempio su un’aliquota del 20% per i redditi imponibili fino a20.000 euro annui (4000 euro di imposta anziché 4800 euro) e del 25,5% per i redditi imponibili fino a 30.000 euro (6550 euro di imposta anziché 7620).

Partendo dal numero di occupati privati impiegati a 38-40 ore settimanali nelle aziende con più di dieci dipendenti (circa 9,5 milioni di persone), ipotizzando che si possa proporre la riduzione di orario volontaria del 10% del monte ore settimanali al 90% di questi soggetti (circa 8.500.000 lavoratrici e lavoratori) e ragionando su una possibile adesione del 90% di essi, il numero di lavoratrici e lavoratori coinvolti nel progetto potrebbe aggirarsi attorno ai 7 milioni di soggetti i quali libererebbero un monte ore aggiuntivo di circa 28 milioni di ore settimanali.

Con questo monte ore disponibile, si potrebbe fare spazio, creare occupazione, per circa 750 mila nuovi addetti a 36 ore settimanali, oppure per 1 milione di addetti a 24 ore settimanali oppure per  1 e 400 mila addetti a 20 ore settimanali.

Ipotizzando una via di mezzo accettabile si potrebbe pensare anche che non tutte le ore disponibili potrebbero essere utilizzate e che i nuovi posti di lavoro potrebbero essere suddivisi, ad esempio, per metà in occupati a tempo pieno (36 ore settimanali) e per metà a tempo ridotto (24 ore settimanali), dando cosi spazio ad almeno 350.000 nuovi lavoratori a tempo pieno ed a circa 550.000 a tempo parziale, per un totale di circa 900.000 nuovi posti di lavoro.

Dal punto di vista finanziario – fiscale per le casse dello Stato, il disposto combinato della riduzione d’orario e delle agevolazioni fiscali previste dovrebbe comportare un minor introito Irpef di circa 6 miliardi di euro, effetto che verrebbe compensato per circa 2,5 miliardi dalle imposte pagate dai nuovi assunti, per circa 1 miliardo da maggiori entrate iva dovute ad un incremento degli scambi commerciali interni e per circa 1,5 miliardi da minori oneri di mobilità, disoccupazione ecc., sommando a circa 4 miliardi. I 2 miliardi mancanti, a copertura del gettito attuale, potrebbero comodamente essere reperiti da un taglio vero, reale e concreto dei costi della politica, quella politica che – tra tutti i vari livelli nazionali e locali – ci costa circa 23 miliardi di euro l’anno (analisi effettuata nel 2012 dalla Uil) e che, con una riduzione vera, concreta, lineare, di almeno il 20 per cento potrebbe fruttare ben 4 miliardi di euro l’anno alle casse dello Stato.

Idee e proposte concrete, razionali, realizzabili. Altro che jobs-act!!!

 

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