Incontrai Stefania alla “ Spiaggetta “ di Bolsena, molti anni fa.
“ La Spiagetta “ è uno stabilimento balneare sulle rive del lago, che conobbi grazie ad alcuni miei amici.
La domenica mattina, d’estate, andavamo là, Gibido, Carlo, Sandro, Pino ed Io, affittavamo un pattino e remavamo al largo poi, tornati a riva, prendevamo il sole, chiacchierando.
Quella domenica pomeriggio andai da solo alla “ Spiaggetta “, con la mia prima macchina, una Panda rossa comperata usata alla concessionaria FIAT dell’Arcone.
Era la mia prima macchina ed avevo più di 30 anni e, era anche la prima macchina della mia famiglia.
Fino ad allora la Vespa di mio Padre ed un Ape 125 erano stati i mezzi di locomozione di casa mia e miei.
Vidi Stefania lì che prendeva il sole, con una ragazzetta che le stava intorno.
Non era più giovane, aveva un costume nero, intero, degli occhiali con montatura spessa, capelli corti con filze bianche, delle piccole venuzze bluastre in evidenza sulle gambe.
Era alta come me ed il suo corpo ricordava un passato di sport, sano e forte.
Non so cosa mi attraesse di lei, stava sdraiata al sole, leggendo in quotidiano Il Giornale. Ed io mi sistemai non molto distante.
Avevo con me un piccolo registratore e una cassetta di canti della tradizione anarchica e rivoluzionaria italiana dell’ ‘800 e del ‘900.
Pensai di provocarla “ la fascistona che leggeva Il Giornale “ e misi la cassetta senza cuffiette, ad un volume sufficiente perché potesse sentire.
La mia azione sortì effetto, dopo un po’ mi sorrise e iniziammo a dialogare.
Strano, a me timido ed insicuro, quella volta riuscì tutto facile.
Stefania, mi disse, era medico e dirigeva il laboratorio analisi di uno degli Ospedali dei Castelli Romani.
Aveva tre figli, una femmina “ in giro per il mondo “ un ragazzo che aveva fatto la maturità e che, a Settembre, doveva sostenere, gli esami per l’ammissione alla’ Accademia Morosini di Venezia e, la più piccola, che era lì con Lei, una graziosa adolescente sordomuta.
Stefania aveva un lungo cognome spagnolo, di una nobile casata di Puglia e, come mi scrisse in una lettera nei mesi successivi : “ chissà cosa trovavo io in te, con il mio back ground….”.
Affittammo un pattino e facemmo un giro sul lago, Lei, Io e sua figlia.
Remavo e approfittando di un momento con la figlia di spalle, Le dissi che avrei voluto baciarla.
Si tuffò in acqua senza dire una parola.
Ritornati a riva Stefania mi disse che sarebbero andate a cena a Viterbo, in un ristorante cinese, per festeggiare il compleanno della figlia.
Le dissi che mi sarebbe piaciuto esserci.
Annuì.
Al ristorante ridemmo e scherzammo tutti e tre.
Stefania indossava un delizioso e semplice vestito a tubino celeste che le scopriva le ginocchia e, con due spalline che le lasciavano nude le braccia e le spalle, tornite ed ambrate.
Durante la conversazione le appoggiai la mano su una delle ginocchia e non si ritrasse. La tovaglia del tavolo arrivava fino a terra e nessuno si accorse di nulla.
Tenni a lungo la mano sul suo ginocchio.
Lei sorrideva e continuavamo ad intrattenerci, tutti, con gaiezza.
Alla fine della cena uscimmo dal ristorante e ci incamminammo verso una piazza con una bella fontana antica, zampillante.
Ci sedemmo sui suoi scalini. Mi prese uno sdilinquimento, ci prendemmo la mano, mentre sua figlia era seduta più sotto.
Non conoscevo Viterbo allora e, sotto la guida di Stefania, ci dirigemmo verso le macchine, parcheggiate.
Ardevo di sentimento e di desidero mentre camminavamo e, ne ero liquefatto. Non so cosa succedesse dentro di Lei.
Mente la giovane figlia camminava davanti a noi, fraseggiavamo con le nostre mani.
Arrivati alla macchine ci salutammo. Eravamo sul punto di scambiarci i numeri telefonici per poterci rivedere, quando la pregai di non lasciarmi solo quella notte.
Si fermò un attimo, mi passo la mano fra i capelli e disse: “ Vieni, in qualche modo faremo “.
Guidai la mia Panda rossa dietro la sua utilitaria, nel buio della notte, attento a non perdere di vista la sua auto.
Non potevo permettermi di perderla.
Arrivammo a Campagnano Romano, dove lei abitava.
Parcheggiò e scese dalla macchina, dirigendosi con la figlia all’interno del paese.
Mi fermai poco distante e iniziai ad attendere.
Dopo circa un’ora ritornò, sola. Erano forse verso mezzanotte e mezza.
La seguii a casa, sua figlia dormiva in una stanza in fondo al corridoio.
Non si era accorta di nulla, e ciò era l’importante.
Tutto era silenzio e buio.
Lascia la casa di Stefania poco prima dell’alba.
Salii sulla mia auto. Alle 7 dovevo essere al lavoro, nel cantiere in mezzo ai boschi di Villalba.
Iniziò una storia.