di Mario Tiberi
“Foveatur lingua latina”: così Benedetto XVI° , motu proprio, istituendo la nuova “Pontificia Academia Latinitatis” intende contribuire alla crescita della conoscenza della lingua che fu di Cicerone, di Agostino, di Erasmo da Rotterdam, non solo nell’ambito della Chiesa Cattolica, ma anche e più significativamente in quello della società civile e degli istituti di formazione scolastica.
Fino ad oggi, nell’Oltretevere, ad occuparsi di mantenere in vita l’antico idioma era stata una Fondazione, “Latinitas”, rimasta sotto l’egida della Segreteria di Stato ed ora destinata a scomparire: oltre a pubblicare l’omonima rivista mensile e ad organizzare il concorso internazionale “Certamen Vaticanum” dedicato alla poesia e prosa latine, negli ultimi anni si è occupata pure di tradurre in latino parole strettamente moderne.
L’imminente istituzione della nascente Accademia Pontificia, affiancandosi alle undici già esistenti (tra le quali si annoverano quelle finalizzate allo studio delle scienze e della vita biologica), viene confermata da una lettera che il Cardinale Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ha indirizzato a Don Romano Nicolini, sacerdote riminese e gran propugnatore del ritorno dell’insegnamento del latino nella scuola media inferiore. Ravasi ricorda che l’iniziativa dell’Accademia è personalmente desiderata dal Santo Padre ed è promossa dal dicastero vaticano della cultura: vi faranno parte eminenti studiosi di varie nazionalità con la finalità “di promuovere l’uso e la conoscenza della lingua latina sia in ambito ecclesiale e sia in ambito civile e scolastico”.
Sono passati cinquant’anni da quando Giovanni XXIII°, ormai alla vigilia del Concilio, promulgò la Costituzione Apostolica “Veterum Sapientia” per ribadire come il latino sia lingua ufficiale ed immutabile della Chiesa di Roma. Il Vaticano II° stabilirà sì di mantenere detta lingua nelle cerimonie religiose di ecumenica rilevanza, ma la riforma liturgica post-conciliare ne avrebbe poi abolito ogni traccia nell’uso comune. Così, mentre mezzo secolo orsono prelati di ogni parte del mondo riuscivano a capirsi parlando e scrivendo con l’idioma di Cesare e i fedeli mantenevano un contatto settimanale con esso, oggi anche nella Chiesa il latino non gode certo di ottima salute.
Nonostante ciò, valenti studiosi sono costantemente al lavoro per proporre neologismi atti a tradurre le encicliche papali e i documenti ufficiali. Un’impresa alquanto ardua, ad esempio, è stata quella di trasferire nella lingua latina l’enciclica “Caritas in Veritate”, dedicata alle emergenze sociali e alla crisi economico-finanziaria. Alcune scelte dei latinisti della Santa Sede sono state aspramente criticate dalla rivista dei Gesuiti “Civiltà Cattolica”, la quale ha severamente bocciato le “Voces Novae” del tipo “delocalittatio”, “anticonceptio” o “sterilittatio”, approvando invece la scelta di “plenior libertas” per liberalizzazione e di “fanaticus furor” per fanatismo. Tra le curiosità, l’espressione “fontes alterius generis” per definire le fonti energetiche alternative e “fontes energiae qui non renovantur” per le rinnovabili.
Comunque sia, l’iniziativa del Papa di istituire una nuova Accademia è certamente un segnale significativo di rinnovata attenzione rivolta alla lingua dei nostri padri. “Il latino educa ad avere stima delle cose belle”, spiega Don Nicolini e, a me sembra, che l’affermazione non possa trovarne di migliori.
Velocemente, trasferiamoci da Roma a Berlino. Altro che lingua morta!. In Germania, nell’arco di un decennio, il numero degli studenti che si sono avvicinati al modo di sillabovocalizzare di Virgilio, Orazio ed Ovidio si è quasi raddoppiato. Ad oggi, circa il 10% di tutti i discenti tedeschi si cimentano, chi elementarmente e chi universitariamente, con le traduzioni dal “Latein”, terza lingua straniera più studiata dopo inglese e francese staccando di molto lo spagnolo, il russo e l’italiano.
Come spiegare un simile successo?. Vi è innanzitutto una ragione didattica: negli anni ottanta si registrò una flessione alla quale si reagì rendendo i metodi di insegnamento più moderni ed attraenti. Vi è, poi, una ragione storica: l’accresciuto interesse per il mondo antico, così come sostiene il Professor Zimmermann presidente dell’Associazione Tedesca dei filologi classici. Vi è, infine, una ragione pragmatica: con il latino “si impara ad imparare e si apprende come risolvere i problemi, oltre a migliorare le proprie competenze linguistiche”, annota lo stesso Zimmermann.
Il latino inoltre, rilanciano i Professori Gieseler e Efing, facilita l’apprendimento delle altre lingue, aiuta a migliorare la padronanza del tedesco, esalta le capacità di concentrarsi e di pensare in modo analitico e, in successione, in modo sintetico.
Se, dunque, tradurre testi classici migliora la padronanza della lingua nel caso in specie tedesca, l’augurio fervido allora che mi sento di formulare è che possa migliorare anche la padronanza della nostra lingua italiana.