Dal locale …
L’epoca del cambiamento urgente
Caro Pier,
ti propongo di commentare questo intervento del nostro Direttore, che con il titolo “non è più il tempo degli Olimpieri, né a destra né a sinistra”, mi pare sottolinei la necessità e l’urgenza di quel cambiamento radicale nel modo di pensare e di agire della classe dirigente della città per cui noi ci battiamo da tempo. A me sembra il vero tema da svolgere. Tu che ne dici?
Franco
“Il capogruppo del PdL al Comune di Orvieto saluta l’azione riformatrice di Còncina (sic) e l’approvazione del bilancio preventivo 2013 e ignora la relativa pratica di predissesto, attivata per evitare il fallimento. Scrive che “E’ stato evitato il fallimento del Comune attraverso scelte che, di fatto, hanno “rivoluzionato” le modalità di governo della cosa pubblica. Ed è grazie a questa azione riformatrice che nel prossimo futuro la città potrà camminare con le proprie gambe ed a testa alta”. Che cosa vorrà dire? Perché un concordato (e non sappiamo neppure se sarà accettato) che impegna il Comune per dieci anni a stringere la cinghia, dovrebbe essere una scelta rivoluzionaria? Al di là del merito sul predissesto, che potrebbe essere anche una scelta obbligata, e neppure la peggiore, come si fa a gongolare perché la maggioranza “compatta”, sostenuta da due “responsabili”, ha sconfitto la sinistra? Dove è il motivo di godimento in questo ultimo bilancio di Còncina, che consegna a chi verrà una città piena di debiti, più o meno come prima? Masochismo? L’ideologismo stantio prende il sopravvento e olezza intorno senza concedere più spazio d’azione al ragionamento. I fervorini di Olimpieri sono talmente vuoti che se si tenta una sintesi non ne esce alcun succo, come quando era in minoranza. La sinistra dà numeri falsi ed è ignorante. Come sempre, linguaggio e idee, neppure un passetto in avanti verso il pensiero. Come si potrà ricostruire questa città se, di fronte a un atto impegnativo come quello del predissesto, che richiederà una condivisione generalizzata di progetti e scelte, al di là di chi governerà, il leader della maggioranza spara cartucce a salve di questo genere, pensando di convincere un suo pubblico che, spero, non si ecciti più con l’odore del sangue della “sinistra”, che ormai da qualche anno non mangia più bambini, tant’è che anche nella destra vivacchiano ex rossi di diversi riflessi cromatici. È il tempo di pensare a trovare risorse, nuove entrate che attenuino i sacrifici a cui la città sarà chiamata e che offrano qualche speranza. È il momento di cercare l’aiuto di tutti gli attori dell’economia e della politica cittadina, di pensare, di agire davvero verso un comune obiettivo, magari non ventre a terra secondo l’andatura di Còncina, più piano, ma verso qualcosa. Non è più il tempo degli Olimpieri, né a destra né a sinistra”.
Che al nostro Direttore non piaccia l’oratoria del consigliere Stefano Olimpieri non è novità. Così come non è una novità che non lo entusiasmino le magnifiche sorti e progressive secondo Toni Concina. Non voglio cavarmela solo ricordando che Olimpieri è uno dei consiglieri più votati dal popolo sovrano e che Concina è stato eletto dalla maggioranza degli orvietani. Ma sono cose che in democrazia contano. Né voglio cavarmela facendo il calcolo di quanto è costato il mantenimento del consenso da parte della classe politica di sinistra. Mi limito a insistere sul fatto che l’amministrazione Concina ha assolto il compito fondamentale di riportare in equilibrio i bilanci annuali. Non ha recuperato il deficit ereditato perché ha preferito salvare gran parte del welfare comunale. Ha quindi dovuto far ricorso alla procedura di riequilibrio pluriennale che è la strada prevista dalla normativa attuale per ripianare i deficit quando gli enti locali non sono in stato fallimentare. Orvieto è ancora un Comune piuttosto ricco, perciò il fallimento, che per gli enti locali si chiama dissesto, non è la soluzione giusta né moralmente, né politicamente, né economicamente. Chiunque ha il diritto di farsi la propria opinione complessiva sull’amministrazione Concina e di manifestarla. Io che mi sono trovato a combattere su quel fronte e non me la sono sentita di gettare le armi, sono tenuto a uno stile sobrio nel manifestare la mia opinione. Posso però auspicare che chi non è soddisfatto, oltre a esercitare il diritto di dirlo, adempia il dovere civico di organizzarsi perché le prossime elezioni portino al potere cittadino una classe dirigente migliore. Ma tenendo conto prudentemente dell’assioma che “se un problema difficile ti sembra facile, vuol dire che non l’hai capito”.
… al globale
Forse è giunto il momento dell’etica della responsabilità
Caro Franco,
a proposito delle classi dirigenti, tanto bistrattate soprattutto in questo tempo di crisi, ti segnalo una osservazione di monsignor Javier Echevarria, Prelato dell’Opus Dei. Io ci trovo l’eco di un’antica saggezza. Anche Voltaire diceva: «Ogni uomo è colpevole di tutto il bene che non ha fatto.» Tu che ne dici?
“Penso che non possiamo scaricare tutto sulle classi dirigenti senza prima interrogarci su quello che – qualsiasi sia il nostro ruolo nella società – facciamo ogni giorno. Non possiamo pensare solo di scaricare la responsabilità sugli altri. Su una classe dirigente che scegliamo noi e che noi possiamo comunque condizionare. Dunque, interroghiamoci prima su come viviamo, su come lavoriamo, su come siamo nel rapporto con gli altri, con la nostra famiglia. In una crisi si entra, da una crisi si esce e per farlo occorre anche l’impegno di ciascuno di noi, non solo di chi ci governa.” [Corriere della Sera, 15 dicembre 2013]
Monsignor Echevarria risponde qui ad una domanda sul ruolo e la responsabilità delle classi dirigenti nell’ormai lunga crisi che ha colpito il mondo occidentale e in particolare l’Italia. Nella sua sinteticità la sua è una risposta terribilmente efficace, giacché contiene insieme tratti essenziali che accomunano, lungo l’arco della storia umana, civiltà diverse e tratti distintivi della civiltà occidentale esaltati da ultimo dall’esperienza delle democrazie realizzate. Il succo è: anche nelle peggiori esperienze storiche, di ciò che accade non è mai responsabile solo chi detiene il potere; in particolare, quando il potere è esercitato nelle forme istituzionalizzate della democrazia, che consentono al popolo per loro natura di giudicare, scegliere e cambiare la classe dirigente, la responsabilità di ciò che accade non può essere attribuita solo a chi è stato delegato, perché il delegato è tale in quanto c’è un delegante.
La questione centrale è dunque l’esercizio della responsabilità, a cui sono connesse quelle ulteriori della sua possibilità effettiva, del modo in cui eventualmente avviene e del perché avviene o non avviene. Non è certo questo il luogo in cui fare un discorso così complesso, ma il richiamo alla sua importanza è già sufficiente per ricordarci che non ce la possiamo cavare sempre con l’attribuzione ad altri del compito di fare ciò che spetta anche a noi o addirittura solo a noi, eventualmente insieme ad altri.
Come accennavo, possiamo rintracciare il concetto di responsabilità e l’ambito del suo esercizio in civiltà diverse e in autori diversi e lontani sia nello spazio che nel tempo, oltre che naturalmente rispetto alle particolari temperie culturali. Il tema è presente ad esempio nella Bibbia, oltre che nell’antica cultura cinese e in quella indiana. Nel quadro della grande filosofia greca Aristotele si chiedeva di chi è la responsabilità dell’azione dannosa e rispondeva che c’è responsabilità solo se l’azione non è imposta; ma se l’azione è libera, la responsabilità delle sue conseguenze ricade su chi la compie. La cultura latina diceva cose non meno importanti. Ad esempio questa: “Anche le stelle (ta àstra) infatti sono per così dire “instabili” (à-stata), dal momento che non stanno mai ferme ma si muovono continuamente. È altresí ragionevole che pure gli dèi (tous theoùs) abbiano derivato il loro appellativo dalla “corsa” (thèuseos): in un primo tempo infatti gli antichi supponevano che fossero dèi quelle entità che vedevano spostarsi senza posa, e li consideravano responsabili dei mutamenti dell’atmosfera e della conservazione dell’universo. Forse però gli dèi (the-ói) potrebbero essere “fondatori” (the-tères), vale a dire artefici (responsabili), degli eventi” (Lucio Anneo Cornuto, Theologiae Graecae compendium). La cultura moderna poi ha fatto di questo il suo aspetto distintivo, da Leon Battista Alberti (che, rielaborando una frase attribuita da Sallustio al console Appio Claudio Cieco, ripeteva “homo faber fortunae suae”) a Pico della Mirandola e a Machiavelli, fino a quando, in tempi a noi più vicini, Max Weber e Hans Jonas hanno esteso l’idea della responsabilità dall’ambito individuale a quello universale (nei confronti dell’umanità e della natura), trasformandola in fondamento di una nuova etica pubblica che guarda al futuro.
Dunque la cultura della responsabilità affonda le sue radici nella storia lontana e si rafforza e si amplia nell’età più recente, fino ad essere così evidente nella sua necessità di esercizio diffuso che si rimane stupiti di dover constatare come all’esigenza conclamata non corrisponda se non raramente e parzialmente la realtà dei comportamenti, individuali e collettivi, delle classi dirigenti e di chi le sceglie.
Quale ne può essere la ragione? C’è chi ritiene che si tratti del mistero della complessità dell’uomo, di fronte al quale non ci sarebbe che la resa. C’è chi ritiene ancora valido ciò che dicevano gli intellettuali rinascimentali (appunto, tra gli altri, Alberti, Machiavelli, Pico) circa i limiti che l’azione umana incontra a causa della variabilità della “fortuna”. C’è poi anche chi ritiene che non abbia perso di senso, e che anzi oggi ne abbia più che nel passato, l’idea che non ci può essere responsabilità senza libertà, libertà senza conoscenza, conoscenza senza istruzione e formazione.
Conclusione: c’è bisogno dell’educazione e dell’esercizio della responsabilità. Si tratta certo di un compito lungo e difficile, capace di incidere in profondità nella cultura individuale e collettiva così da passare da obiettivo incerto ad abito quotidiano, ma anche di un compito bello, perché riguarda tutti. E di un compito che, per i significati che riassume, potrebbe riempire di senso una vita intera.