Avevo riarse le labbra,
e tu, donna di Samaria,
mi desti acqua copiosa
dalla coppa dei tuoi fianchi
vasti, quando vivevo
nel deserto della mia
anima anarchica.
E fu il tempo dei buoni
compagni nella stanza
delle prossime esatte
rivoluzioni, e bevvi
vino e miele dalla fontana
del piacere inevitabile,
prima della notte
quasi libica. A noi
i morti sorridevano,
quelli della giusta
comunque amorosa
battaglia, i martiri
e le puttane.
Conosco le strade che NON portano
da lei, hanno pietre dure a selciato,
e fiori troppo strani per essere fiori.
Conosco la paura che ha il nome
di mia madre destinata a morire,
e vorrei non sapere il nome di mia
madre se mi deve morire, e stringo
la paura tra le dita perché non voli
via, diventerebbe terrore. Sai,
ha appena smesso di piovere,
ma non ho bisogno di sole
se non deve essere anche suo.
Non ho avuto infanzia, se adesso
lei mi deve lasciare per andare
DOVE LEI NON E’.
Fu lei ad insegnarmi l’amore
che è sempre verde, anche quando
lo ricopre la fronda che non dovrebbe;
e fu lei a percorrere la mia strada,
inciampando nei miei pensieri
oscuri, volteggiando sui miei sempre
troppo casti desideri. E si fermava,
ad un tratto, improvvisamente
sciagurata, a chiedersi se eravamo
mai stati vivi davvero. Fu lei a dirmi
le parole che non si possono dire
senza piangere, come fossero fiori
asciutti di morte. Ma lei, ah lei sì,
lei poteva essere la primavera.