Dal globale …
Ma quale Papa vogliamo?
Caro Pier,
a papa Francesco sono bastati appena sei mesi per far capire la sua volontà e la sua capacità di rinnovamento e, come d’altronde c’era da aspettarsi, sono iniziate subito le prese di distanza e le posizioni critiche. Così, nello scorso mese di ottobre, mentre da una parte usciva “Il principio passione”, il libro del teologo Vito Mancuso a te caro, con al centro l’idea dell’amore come compartecipazione all’armonia dell’universo, visione ad un primo sguardo vicina al messaggio di Papa Francesco, dall’altra su “Il Foglio” di Giuliano Ferrara si sviluppava un’accesa discussione sul significato dei discorsi e delle azioni del nuovo pontefice con articoli molto critici, da quello di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro (“Questo Papa non ci piace” e “Cristo senza dottrina né Verità”) a quello di Mario Sechi (“Un Papa senza distanza”), di cui riproduco di seguito la parte iniziale. Per Pierangelo Buttafuoco la Chiesa e la religione non possono fare a meno dei simboli e soprattutto non possono trascurare la forza ineffabile della spiritualità. Per Mario Sechi il papa non può ignorare di essere anche il Capo della Chiesa, che è anche Stato e potere, per l’esistenza dei quali è essenziale la distanza dal popolo. Gianni Gennari afferma al contrario che se si parte dal messaggio evangelico non si può essere lontani da quel mondo degli uomini che richiede amore e carità, cioè si deve stare nel popolo e con il popolo. Dibattito acceso dunque, per nulla occasionale. Dibattito che ci riguarda. Tu che ne dici?
Franco
“Caro direttore, l’estate mia mamma diventa più loquace del solito, il suo gusto per la battuta tagliente, tipico di Cabras, diventa ancor più acuminato. Così, quando una mattina di fine luglio Papa Francesco è comparso di fronte alla tv e lei, quasi registrandone le movenze, ha scolpito un lapidario “sembra un prete di paese”, sono rimasto folgorato da un apprezzamento sincero che però aveva anche un sottotesto. Alla mia domanda a bruciapelo “cosa non ti convince?”, Peppica ha risposto: “Manca la distanza. Quella del Santo Padre, l’uomo più vicino a Dio”. Sono un ragazzo di paese, nuragicamente secolarizzato, e a certe cose do ancora grande importanza. … Finita l’estate, passato settembre, al galoppo ottobre, quella parola, distanza, è rimasta a pulsare in valigia, mentre tutto “il nuovo” del Pontefice diventava un “finalmente!” ideologico intonato a colazione, pranzo e cena, da quelli che “ora la chiesa è il progresso e voi non potete abbracciarlo, perché questo Papa è nostro e non vostro”. Improvvisamente, mi sono sentito uno straniero in casa di terzomondisti e progressisti-mai-stati-comunisti che avevano trovato un loro santino, Francesco, da mettere in auto al posto di Padre Pio. Poi, tra scismi e -ismi, un caffè e un cannolo, un giorno si è messo in mezzo Pietrangelo Buttafuoco che m’ha appuntato sul taccuino il passo di una conversazione di Domenico Porzio con Leonardo Sciascia: “Se le messe fossero ancora in latino, il Papa non avrebbe oggi il problema delle chiese vuote”.
“Ognuno è schiavo della sua piccola storia”. Mi è rimasta impressa questa frase impiegata da Vittorio Messori per spiegare con la sua formazione razionalista il suo critico confrontarsi con la religione cattolica e il suo bisogno, per ritrovare la fede perduta in gioventù, di svolgere una “Inchiesta su Gesù”. Siamo tutti schiavi delle nostre piccole storie; anche Gnocchi, Palmaro, Sechi e Buttafuoco. Anche tu ed io. A volte non avvertiamo che le nostre storie si evolvono e che anche nel nostro rapporto con Dio e con la religione non siamo sempre gli stessi. Papa Francesco mi ha colto in un momento della mia piccola storia in cui mi è sembrato il Papa che desideravo. “Come se ce l’avessi messo io” potrei dire, se avessi voglia, in questa materia, di fare lo spiritoso. Quando non si presentò a quel fastoso concerto nella sala Nervi e le telecamere inquadrarono la sua ricca e inutile poltrona, ebbi la divertente conferma che quello era il “mio” Papa. Ho tutto il rispetto per i critici di Papa Francesco (quelli che tu hai direttamente o indirettamente citato mi sembrano sinceri e sono tutte persone che stimo) ma non mi trovo sulla loro lunghezza d’onda. Quanto all’aforisma di Leonardo Sciascia, esso, come molti aforismi, si presta a una doppia interpretazione. Azzardo quella meno evidente: “La liturgia più è incomprensibile e più attira le masse; ma quella è fede?” Gesù fu crocifisso dai tutori (autoritari e interessati) della legge e della liturgia. Tra l’altro, si era permesso di dire: “Tu, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.”
… al locale
Riusciranno gli Orvietani a cacciare i partiti?
Caro Franco,
t’invito a commentare il mio pezzo seguente, pubblicato da Orvietosì il 1° novembre. Non lo faccio per darmi importanza (mi basta e m’avanza quella poca che ho) ma per non sentirmi isolato.
Pier
“Mi sembra che ancora prevalga, nella nostra città, l’opinione che il confronto dei partiti nazionali nelle elezioni comunali sia un fenomeno normale in una democrazia. Invece il fenomeno è una manifestazione non della democrazia, ma di quella sua deformazione che è la partitocrazia. La Costituzione ragionatamente stabilisce che ‘tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.’ Ma una cosa è la politica nazionale, altra cosa è la politica locale. L’interferenza dei partiti nelle autonomie locali è un effetto della partitocrazia. Vale a dire partiti pigliatutto: governo, sottogoverno, banche, televisione, posti di lavoro negli enti pubblici, occupazione degli enti locali ecc.
Siamo tanto abituati al fenomeno che lo diamo per scontato. Però la partitocrazia è in crisi perché sta perdendo il suo tradizionale alleato, che è l’ideologia. Gli entusiasmi provocati dalla convinzione che la propria fazione sia nel giusto, mentre gli altri sono ottusi e cattivi, alla lunga hanno stufato e si sono indeboliti a favore degli entusiasmi nell’ambito dello sport, della moda, dell’arte e dell’intimità sentimentale.
Molta gente ormai non va a votare, non perché si fidi dei politici e di chi li vota, ma per manifestare il proprio disprezzo. Altri votano in massa per un movimento che contesta i partiti.
Alle prossime elezioni comunali, anche nella nostra città, i partiti tradizionali si presenteranno con programmi quasi uguali che non leggerà quasi nessuno e tutto il loro sforzo sarà proteso a risvegliare quel che resta delle vecchie ideologie.
Non so se chi non sta a questo gioco vecchio e sputtanato saprà organizzarsi e mettersi in mezzo. Certamente Orvieto è una città abitudinaria, ma potrebbe rendersi conto che sono le sue abitudini che l’hanno ridotta male”.
Bello scherzo, eh? Mi fai commentare un tuo articolo ben sapendo che mi sarà difficile dissentire. Vabbè, tenterò comunque di dire qualcosa di sensato partendo dalla coda. Nemmeno io mi rendo ancora conto se i partiti orvietani si presenteranno alle elezioni comunali nel 2014 ripetendo come se niente fosse i consunti schemi del passato e se ci sarà chi, interpretando un diffuso “non se ne può più”, sarà capace di presentarsi come credibile alternativa sia programmatica che politica. So però che la crisi dei partiti, se a livello nazionale è grave, a livello locale non lo è di meno, e non per semplice e meccanica trasposizione dal generale al particolare. È appena il caso di ricordare che nello scorso numero della nostra rubrica ci siamo occupati di un articolo di Antonio Polito che appunto descriveva una situazione da “maionese impazzita”: “Nel Pd agiscono separatamente il gruppo dei «Renzi for president» e l’avversa coalizione del «Tutto tranne Renzi»; più un manipolo di deputati che rispondono direttamente alla Cgil. Nel Pdl i «fittiani» contendono palmo a palmo il terreno agli «alfaniani», e il consenso del Pdl va contrattato con entrambi (più Brunetta). Scelta civica si è sciolta in due fazioni, per niente moderate nella foga con cui si combattono”. Come si sa, le cose non vanno meglio in Lega e in M5s. Le conseguenze di tutto ciò sono sotto gli occhi di tutti noi.
E a livello locale quale è in generale la situazione? Emblematico, credo, quanto sta avvenendo nel PD impegnato in questo periodo proprio nei congressi locali in vista delle primarie dell’8 dicembre per l’elezione del nuovo segretario nazionale: tessere gonfiate, personalismo esasperato, liti e scontri di candidati all’ultimo sangue, ricorsi qua e là a suon di carte bollate. Emblematico perché, se per gli altri partiti e formazioni il tema di organizzarsi secondo regole democratiche non si pone nemmeno, il PD ne ha fatto un criterio di orgogliosa distinzione. Solo che alla prova dei fatti questa distinzione dimostra che la spinta democratica si può rovesciare nel suo contrario e invece di un confronto serio su idee si verifica uno scontro puramente numerico, peraltro con numeri talmente bassi da rendere talvolta democraticamente insignificante il risultato anche da questo punto di vista. Emblematico anche perché ciò che accade nei congressi locali del PD va al di là dello stesso PD e descrive la realtà di un Paese, il nostro, letteralmente disgregato.
E ad Orvieto come siamo messi? Io credo non in modo significativamente diverso. Basta osservare la realtà amministrativa, i comportamenti politici, i silenzi e i dibattiti. In fondo non meriterebbe parlarne più di tanto. In verità c’è un tentativo del PD di presentarsi come unico soggetto politico organizzato capace di una alternativa di governo della città. Lo fa sulla base di due assunti, uno programmatico e uno politico: l’idea di un progetto interregionale per attingere a fondi europei intorno a cui aggregare le forze anti-Concina e l’idea delle primarie per la scelta del sindaco. Idee rispettabili, ma allo stato dell’arte tutt’altro che risolutive. Le ragioni sono diverse. Ne dico alcune. La prima: l’idea di un progetto interregionale è stata avanzata, sostenuta, sviluppata, da anni e anni e però mai i partiti, a partire proprio dal PD, l’hanno presa sul serio; perciò come minimo viene il sospetto che sia più un’idea elettorale che non una scelta di fondo, una svolta; e poi, come si fa a sostenere (vedi un recente articolo su OrvietoSi) che solo nel PD ci sono le competenze per gestire un progetto di quel tipo? La seconda: le primarie orvietane hanno una storia che non si cancella; servono più per regolare scontri interni che non per scegliere il candidato più rispondente alle esigenze di governo di questa città massacrata dalle lotte fratricide. La terza: ma perché per aggregare forze bisogna essere contro qualcuno, a livello nazionale preferibilmente contro Berlusconi e a livello locale contro Concina? Non si può essere a favore di qualcosa, ad esempio a favore della città, dei giovani, del futuro, del benessere, ecc. ecc.? Sarà più difficile, ma anche più interessante e comunque meno ingannevole. L’impressione ancora una volta è che il PD vuole fare da solo, che gli schemi culturali siano irrimediabilmente segnati, che non ci si aprirà all’esterno e di fatto si affronterà, peraltro a fatica, il solo vero problema, che è la lacerazione tra gruppi che si combattono per prevalere, con la conseguenza che chi vincerà non sarà sostenuto da chi perderà.
La mia convinzione dunque è che se la città vuole uscire dalla crisi che l’attanaglia deve seguire un percorso diverso, proprio la costruzione di quel terzo polo su cui si stanno concentrando le attenzioni di molti soggetti sciolti dai vincoli tradizionali. Abbiamo bisogno di una svolta, non di rassegnarci a quel che passa il convento per consolidata disperazione. L’alternativa è già pronta? No. Si può fare? Sì, naturalmente, unendo le forze che la vogliono sul serio. Sulla carta ci sono; vedremo se ci sono anche nella realtà. Tra non molto. Con fiducia.
“Paseggiando per Orvieto. Ci rimane la bellezza”. Foto di Piero Piscini