Dal locale …
Caro Pier,
a me sembra che il fondo di venerdí scorso del nostro direttore, intitolato significativamente “Piave. ‘Regaliamola’ in cambio di lavoro e speranza. Subito”, di cui riproduco di seguito la parte centrale per il tuo commento, sia la metafora del punto al quale è giunta la vicenda della nostra città. Direi, magari esagerando, ma non ne sono del tutto sicuro, un punto di disperazione. Da quello che leggo mi pare di capire che il prossimo Consiglio comunale dovrebbe decidere una radicale svolta nella gestione del bilancio nel senso dell’adozione del “piano di riequilibrio” (altrimenti detto pre-dissesto). Torna così prepotentemente in evidenza la questione del destino dell’area di Vigna Grande, che temo resti avvolta nelle nebbie o, peggio, venga risolta nel modo raffazzonato a cui siamo da tempo abituati. Di qui, credo, la “disperata proposta” dell’amico Dante. Io mi ripropongo di mettere presto per iscritto la mia opinione, ma ora sono curioso di conoscere la tua.
Franco
Regalare la Piave per disperazione?
“… Quando il podestà Monaldo Brizi decise di costruire il casermone, si indebitò talmente che nel ’34 si tentò addirittura di modificare la convenzione tra Comune e Amministrazione aeronautica approvata nel ’30. Ma il decreto legge che prevedeva il rimborso al Comune con 2milioni e 700mila lire e il passaggio dell’immobile al Demanio non andò in porto e quindi noi ci troviamo proprietari di quello straordinario patrimonio, che ha sostenuto l’economia della città per settant’anni, più o meno. Brizi cercò mutui in mezza Italia per pagare il debito e arrivò perfino ad offrire in garanzia l’acquedotto comunale al Monte dei Paschi, che rifiutò comunque il prestito. Dopo questa storia travagliata, ci troviamo oggi con le aziende orvietane che languono, il lavoro assente e senza notizie su che fine faranno l’ex ospedale, la Piave e il palazzo del tribunale. Qualche tempo fa un consigliere comunale della maggioranza conciniana tuonava che per fortuna, nel 2009, loro avevano rifiutato di aprire la famosa busta con l’offerta che avrebbe potuto sbloccare la situazione della Piave, perché l’immobile sarebbe stato svenduto. Invece, continuo io il ragionamento, ancora era per essere posta nel bilancio come mezzo per tappare falle e galleggiare. Oggi non serve neppure più a quello, lo ha stabilito la legge. E allora? E allora cominciamo a pensare di trovare qualcuno che accetti di ristrutturare la Piave in comodato d’uso gratuito, per il tempo utile ad ammortizzare le spese e a garantire il guadagno dell’investitore. Quaranta, cinquant’anni? Si deciderà. Stabiliamo regole tali da garantire che l’affare sia fatto in due, l’investitore e gli orvietani, discutiamo quale sia l’intervento migliore per garantire lavoro e sia coerente con lo sviluppo della città. Discutiamo velocemente e decidiamo di “regalare” quell’area, perché tra qualche anno saranno ruderi pericolosi e noi saremo ancora a cercare qualcuno che se la prenda, in un mercato in cui mezza Italia è in vendita. Partiamo dal business plan di Barbabella e andiamo avanti modificando quanto sarà necessario e utile. Chiediamo soprattutto lavoro subito e prospettive coerenti con una città che per i prossimi anni punta su turismo e cultura. Se qualche amministratore pensasse di arrivare alla santificazione perché concluderà per la città l’affare della vita, se lo scordi …”.
Non esistono soluzioni facili a problemi difficili. Sia per Vigna Grande che per l’ex ospedale la nostra città è piena d’idee, ma tutte rientrano nel vizio che Winston Churchill attribuiva ai socialisti: “Sono come Cristoforo Colombo: partono senza sapere dove vanno. Quando arrivano non sanno dove sono. Ma tutto questo coi soldi degli altri”. Il fatto è che qualsiasi utilizzazione di grandi complessi immobiliari pubblici sottratti all’uso per cui furono edificati comporta costosi investimenti ed è soggetta ai vincoli di carattere urbanistico e di tutela dei beni culturali. Ecco perché l’offerta che non fu mai aperta in quella gara che non fu mai ripetuta era un bluff. Ecco perché perfino la proposta estrema del nostro Direttore potrebbe risultare di difficile attuazione. Di immobili del genere che stanno andando in rovina e che sono addirittura crollati è piena l’Italia. Un architetto che mi è molto vicino sostiene, non senza ragioni, che sarebbe il caso di demolire il Casermone e utilizzare le macerie per rinforzare gli argini del Paglia. Se ne ricaverebbero pregiate aree edificabili sulla Rupe e maggiore sicurezza per alcuni disgraziati quartieri suburbani.
Comunque Vigna Grande può evitare il fallimento del Comune di Orvieto non perché se ne possano ricavare cifre enormi, ma perché il capitale necessario per mettere definitivamente a posto i conti comunali non è stratosferico e può essere sistemato in pochi anni (la legge ne consente fino a dieci). Io lo calcolo in circa 9 milioni di euro sommando al disavanzo ufficiale lo strascico di antiche partite e il risultato di una radicale bonifica dei residui, vale a dire il saldo probabilmente negativo della cancellazione dei crediti di improbabile riscossione e dei debiti insussistenti. E poi il governo ha chiarito che il piano pluriennale di riequilibrio finanziario può prevedere anche la vendita di beni non necessari per i servizi comunali. È inevitabile, a questo punto, aggiornare il business plan di RPO e darsi una mossa. In un recente messaggio privato al sindaco, agli assessori e ai consiglieri comunali di maggioranza ho scritto: “Se Orvieto, in un altro decennio, non riesce a far fruttare l’ex Piave per risanare il bilancio comunale e ripartire, merita che il Paglia arrivi alle guglie del Duomo”. Non mi pento e lo confermo pubblicamente.
… al globale
Riusciremo mai a diventare un Paese governato come si deve?
Caro Franco,
ho pescato sul sito www.comunivirtuosi.org la lettera di un imprenditore che spiega come l’Italia sia ancora “nave senza nocchiero in gran tempesta”. Quando ci libereremo di questa maledizione?
Pier
“Ho fondato e dirigo un’azienda che oggi occupa più di 400 persone con il suo indotto, senza mai aver beneficiato di finanziamenti pubblici, che crea dai rifiuti un volume d’affari in Italia di quasi 100 Milioni di Euro l’anno e produce anche in questo momento valore aggiunto da ciò che altri considerano solo un costo, magari facendolo pagare alla collettività. La mia azienda ricicla – in Italia – più del 10% di tutta la plastica riciclata nel nostro Paese. Questo permette di far risparmiare ogni anno più di 120.000 tonnellate di emissioni di CO2 rispetto a quanto avverrebbe con produzioni realizzate in materie plastiche vergini. Non basta, questa attività utilizza buona parte del materiale plastico riciclato per produrre gli stessi imballaggi plastici che ha raccolto e riciclato; alla fine della loro vita li raccoglie e ricicla nuovamente. E’ presa quale esempio di “circular economy” da numerose aziende estere che tentano di imitare questo modello. Sono orgoglioso di essere italiano ma non posso ulteriormente sopportare, anche come imprenditore, quello che vedo accadere; in estrema sintesi:
- Subisco un costo energetico praticamente doppio rispetto ai miei competitor esteri. Il Governo concede sgravi per le imprese energivore ma… si “dimentica” del comparto del riciclo delle materie plastiche che permette enormi risparmi di emissioni CO2 e savings energetici rispetto alla produzione di plastiche vergini;
- Davanti a modelli virtuosi dal punto di vista ambientale che fanno anche risparmiare il cittadino, il nostro Paese continua a preferire e supportare sistemi monopolistici per la gestione dei rifiuti da imballaggio che, tra l’altro, chiedono un sacco di denaro ai cittadini senza dimostrare di raggiungere i minimi risultati richiesti dalla legge, annichilendo iniziative quali la mia. Nei Paesi evoluti, invece, viene incentivata e sostenuta l’apertura del mercato a molteplici operatori messi tra loro in concorrenza con regole paritarie;
- Vedo che la Commissione Europea sta discutendo come creare nuovi posti di lavoro e benefici ambientali attraverso l’aumento drastico degli obiettivi di riciclo, mentre in Italia stiamo ancora chiedendoci come fare a costruire nuovi termovalorizzatori e/o aumentare una raccolta differenziata di rifiuti plastici che non tiene però conto del loro effettivo recupero, anzi togliendo l’opportunità ai pochi volenterosi di fare impresa nel nostro Paese, cioè di creare occupazione e realtà innovative, e sempre a spese del cittadino!
E’ per il mio orgoglio di essere italiano che ho ingaggiato, nell’interesse non solo mio, una battaglia chiedendo che queste cose cambino, ma concretamente e velocemente, per non essere costretto a trasferire la mia attività all’estero.
Vi terrò informati.
Roberto Alibardi – Aliplast s.p.a.”
Non so se il fatto che l’Italia non riesca a diventare in modo pieno e sicuro un Paese moderno e giusto, governato con lungimiranza, stabilità, correttezza e coerenza, possa dirsi frutto di maledizione, “destino cinico e baro”, complotto interno, internazionale o cosmico, e se mai riusciremo a venirne a capo. Non ne ho la certezza assoluta, ma credo che si tratti di cosa più semplice, e dunque per apparente paradosso anche più complicata: una “colpa”, insieme storica e recente, del popolo italiano e delle sue classi dirigenti. Naturalmente lo so che dire così è dire tutti e dunque nessuno. In realtà le cose non stanno mai in questi termini, perché ci sono colpe e colpe, azioni buone e azioni sbagliate, meriti e demeriti. Ma non è questo il luogo per andare su un piano così analitico e complicato.
Tuttavia la lettera di Alibardi ci fornisce una chiave di lettura dello stato attuale del nostro Paese, in termini se non storici almeno descrittivi: lo stato attuale è quello di un Paese con una classe dirigente inadeguata a interpretare i bisogni di cambiamento e ad organizzare razionalmente le riforme necessarie. Come dire: potenzialità notevoli, incapacità (per imperizia, ignoranza, interesse, ecc. ecc. ?) di coglierle. Potrebbe esserne sufficiente dimostrazione la lettura, proprio sul sito dell’Associazione dei Comuni virtuosi, di quanto posto in premessa alla lettera, in particolare le seguenti considerazioni: “Un recente studio elaborato per la Commissione Europea stima che la piena attuazione della legislazione UE sui rifiuti consentirebbe di risparmiare 72 miliardi di euro l’anno, aumenterebbe di 42 miliardi di euro il fatturato annuo dell’industria della gestione e del riciclaggio dei rifiuti e creerebbe oltre 400 000 posti di lavoro entro il 2020. Purtroppo il ddl contenente una serie di misure ambientali appena approvato dal Consiglio dei ministri, e presentato dal ministro Andrea Orlando come ‘un primo passo’ per i settori della green economy dell’economia italiana, non contiene le risposte che servirebbero per una transizione italiana verso una società del riciclo e dell’uso efficiente delle risorse”. Cosa dire di più? Quanti esempi simili si possono trovare ancora, a livello generale come a livello locale? La Piave non rientra forse anch’essa nell’elenco delle vicende tristi di classi dirigenti miopi, chiuse in se stesse, incapaci di visione e dunque anche di realismo? Ripeto, non so se ne usciremo, come Paese e come città, ma se non ce la faremo non sarà certo colpa né di congiunzioni astrali né di oscuri complotti internazionali, ma solo di noi che ci lasciamo sfuggire, per insipienza e mancanza di coraggio e determinazione, se non per qualcosa di peggio, opportunità e occasioni.