di Fausto Cerulli
Quella sera il teatro era quasi vuoto: qualche persona, le solite persone, in platea, e i palchi deserti. Lui ebbe quasi timore di andare tra la gente della platea, avrebbe dovuto salutare, parlare di cose banali, far finta di divertirsi, mentre aveva la morte nel cuore. Per questo salì le scale che portavano al loggione, si accomodò, si sfilò le scarpe che gli stavano strette, maledette loro, maledetto tutto quel paese che gli stava stretto. O così gli sembrava. Fu solo allora che si accorse di quella presenza che all’inizio non aveva notato. Una donna che sembrava dormire in una poltrona accanto alla sua, appena illuminata dal leggero chiarore delle luci che andavano spegnendosi per l‘inizio dello spettacolo. Quando la scena illuminò, su una scena di casa borghese, quattro sedie, un tavolo coperto da una specie di sudario rosa, lui pensò che fosse suo dovere svegliare la donna, dirle che non era più ora di dormire. Si avvicinò alla donna con passi quasi furtivi, le sussurrò signora lo spettacolo è cominciato.La donna non rispose, non poteva rispondere: era morta. Lui se ne accorse dal sangue che le era uscito da uno squarcio sul collo, e che stava ancora macchiando il vestito nero, molto scollato. Non potè non notare, sia pure nella sorpresa, che doveva essere stata molto bella: e si notava anche dalle gambe affusolate, velate appena da autoreggenti nere, scoperte nella lotta che doveva aver preceduto la morte. Era una situazione molto strana, ne converrete, lui avrebbe dovuto avvertire qualcuno, cercare di essere comunque certo che fosse morta. Ma esitò: non godeva di buona fama in quello strano paese, certo lo avrebbero accusato di essere stato lui l’assassino. Mentre così esitava, la donna, che gli era sembrata morta, si riscosse per urlare “vigliacco” e poi si spense veramente, come una candela giunta alla fine. Ora non poteva più esitare, dalla platea dovevano aver sentito l’urlo della donna, doveva allontanarsi prima possibile. Mentre scendeva quasi di corsa le scale per raggiungere l’atrio del teatro, due uomini molto eleganti, come per una cena di gala, lo fermarono, lo spinsero a furia dentro un palco, chiusero la tenda, poi gli dissero che sapevano tutto. Era inutile che negasse. Aveva ucciso la sua amante, loro avevano la prova: un coltello ben affilato, con le sue impronte. Provò a dire che non poteva essere, che era soltanto un brutto sogno, e che loro erano figuranti del sogno. Ma uno di essi, senza parlare, prese un coltello, lo pulì togliendo ogni impronta precedente, poi lo costrinse a prendere in mano quel coltello, a stringerne il manico in modo che le sue impronte si fissassero indelebili sul manico. Capì di essere caduto in trappola, non pensò neppure a chiedere spiegazioni. I due lo portarono di nuovo sul loggione, lo costrinsero ad avvicinarsi alla donna, e con una lampada tascabile, le illuminarono il volto. Fu allora che lui la riconobbe, e riconobbe che, sì, avrebbe veramente voluto ucciderla, perché lei aveva minacciato di dire tutto alla moglie se lui non accettava di partire con lei. Ma non l’aveva uccisa, non sapeva neppure che lei fosse andata al teatro. Si guardò intorno, adesso anche il loggione era affollato di curiosi, di poliziotti e di fotografi che scattarono foto a centinaia sul corpo della morta, e sul viso inebetito di lui.
Allora decise di farla finita, non reggeva quell’incubo: si affaccio alla ringhiera del loggione e si fece precipitare verso la platea. Non morì subito: ebbe il tempo di vedere la propria amante, di sentire la sua voce, di avvertire il contatto delle labbra di lei sulle sue. Poi fu lei a sembrare smarrita. E quando le chiesero se conoscesse quell’uomo, disse di no. I due uomini, intanto, avevano fatto calare il sipario, proprio mentre sulla scena un uomo geloso uccideva con un coltello finto la propria amante vera. Lui si risvegliò sulla poltrona del loggione, si infilò le scarpe e fece per uscire. Ma i due uomini lo uccisero con due coltellate secche, mentre la sua amante sorrideva, ed era molto scollato il suo abito, e molto false le sue lagrime.